domenica 31 gennaio 2016

Un passo alla volta

"L'uomo conosce una sola forma di lealtà: quella nei confronti del proprio concetto di rettitudine". Ho sempre amato questa frase (Gottlob Frege, Logica matematica: il secondo libro che salverei dal naufragio e mi porterei nell'isola deserta) anche se forse non ne ho mai veramente compreso la reale portata.
Ognuno di noi ha una sua idea di che cosa sia giusto o sbagliato e questa idea è ciò che lo guida nella sua vita e nelle sue scelte: possiamo cambiare opinione, possiamo adattarci a situazioni diverse, ma saremo sempre dominati dalla nostra più personale e profonda dimensione etica, quella con cui siamo cresciuti e ci ha forgiato come individui adulti e responsabili.
 Sinceramente detesto parlare di queste cose: ritengo la morale un ambito talmente intimo e opinabile che mi riesce veramente molto difficile avventurarmi su sentieri tanto impervi. Preferisco muovermi sul terreno più solido e sicuro dell'ambito professionale o delle convenienze sociali.
Ciò non toglie che ci siano delle circostanze in cui stabilire i confini fra piani diversi sia una fatica improba.  E poi non riesco ad evitare di analizzare sempre tutto, cose persone circostanze, perché continuo a credere che conoscenza e comprensione siano i veri motori dell'evoluzione.
Prendiamo i due incidenti che hanno caratterizzato la settimana: niente di particolare, due scene sgradevoli causate dal non aver voluto dispensare un farmaco etico senza ricetta medica. Tuttavia, non si può negare che abbiano causato un certo turbamento in tutte noi, anche se per motivi diversi. Ho cercato di rifletterci con calma, a bocce ferme, come si suol dire, e sono giunta alla seguente conclusione: in realtà, ciò che ci ha creato il maggior disagio è stato il tacito senso di disprezzo che tali atteggiamenti hanno rivelato, in particolare modo perché presenti in persone che non davano modo di sospettare tali pensieri.
Mi spiego meglio: quando sono dietro al banco, sono una professionista nell'esercizio delle sue funzioni. Per quanto riguarda il farmaco sono la massima autorità presente perché questo è il mio ambito di competenza, questo è  il mio ruolo ed il lavoro che sono stata abilitata a fare. Mi dispiace e non voglio mancare di rispetto a nessuno, ma tra una segretaria di un medico, un'infermiera o un parente di medico non meglio identificato, l'unica voce che conta è la mia. Perchè questa autorità me la sono guadagnata, prima con una laurea, poi con un'abilitazione ed infine con l'impegno costante nell'aggiornamento. E se permetto a qualcuno di non riconoscere questo, per prima cosa svilisco me stessa e tutto quello che faccio.
Gli altri ti trattano come tu permetti loro di trattarti. Non ci sono scuse né alibi: se non ti rispettano, sei tu che non sei capace di esigere rispetto. E se non rispettano i tuoi collaboratori, di fatto non rispettano neppure te. Perché delle due, l'una: o non sei una buona guida, e allora il rispetto non lo meriti, oppure attraverso di loro stanno disprezzando il tuo operato. E questo non lo puoi permettere. Per loro, ma soprattutto per te e per la tua credibilità.
Ci muoviamo sempre nell'interesse del paziente, che merita, quando ne ha bisogno, dell'attenzione di un medico, di indicazioni scritte, chiare e facilmente consultabili. Anche quando si tratta di protocolli standard, è necessario che vengano valutate possibili controindicazioni o allergie o interferenze con terapie in atto. Le persone non sono numeri, ma individui, e dobbiamo loro attenzione, cura, rispetto.
E se sorgono delle incomprensioni, pazienza: se fosse un mestiere facile, tutti farebbero i farmacisti, amici, parenti e vicini di casa compresi.



domenica 24 gennaio 2016

Dire e ridire, fare e disfare

C'è un libro, "L'arte di correre " di Haruki Murakami, che amo particolarmente, uno dei tre, per intenderci, che porterei nella famosa isola deserta: l'ho regalato, entusiasta, ad un sacco di persone,ma pare piaccia solo a me. Mi piace per quel suo modo semplice e assolutamente minimale di raccontare le cose, di parlare della sua vita, come se diventare uno dei più noti scrittori giapponesi fosse un evento del tutto naturale, quasi inevitabile. Come se correre per cento chilometri filati fosse alla portata di tutti e non un miracolo riservato a pochissimi e il frutto di allenamenti infiniti ed estenuanti.
Ogni volta che lo rileggo, dopo qualche pagina, mi viene voglia di provare. Di chiudere il libro e cominciare a correre, e correre, e correre; mettermi a scrivere i nuovi "Promessi sposi" (o, almeno, qualche capitolo della "Ricerca del tempo perduto", solo per essere più modesta). Che ci vuole?
Niente. A parte un gran talento innato, volontà ferrea, impegno e dedizione totale. Naturalmente tutti assieme. Naturalmente per un tempo non prevedibile, ma sicuramente lunghissimo. Naturalmente senza nessuna garanzia di successo. Bazzecole.
Bene, lasciamo perdere.
Il vero problema è che, nella vita, è un po' tutto così. Da fuori sembra  sempre molto facile: se c'è riuscito quello lì che non vale niente, io posso fare molto meglio. Se ce la fa quello là è solo perché è nato fortunato, bello intelligente e ricco. Se avessi avuto io la sua fortuna oggi sarei al posto di Marchionne, Rita Levi Montalcini ed Elsa Morante.  Anzi meglio.
E invece no. A parte le buone idee, che sono in assoluto la merce più rara e preziosa, dono divino a pochissimi, bisogna avere anche la capacità di riconoscerle, il coraggio di difenderle, la determinazione di perseguirle. E lungimiranza, pazienza, fantasia. Amen.
Meglio tornare alle difficoltà di tutti i giorni e provare a risolverne qualcuna.
La più urgente, in questo momento, riguarda la gestione del cliente: abbiamo delle crisi ad intervalli regolari, ma sospetto che il problema sia molto più serio e profondo di quanto non sembri.
Dopo lunga e penosa riflessione credo di aver individuato un punto particolarmente ostico: le persone ti trattano come tu permetti che ti trattino. Anche in questo caso, in fondo, si tratta di una banalità su cui non varrebbe neanche la pena di soffermarsi se non nascondesse un'altra questione molto delicata e spinosa: autorità, rispetto e credibilità non possono essere pretesi, pena l'essere percepiti come arroganti e presuntuosi. Esattamente il contrario di quanto si desidera.
Come sempre, è una questione di forma e di sostanza: il pensiero ha bisogno delle parole per esplicitarsi e le parole rivelano un pensiero. Detto in altro modo: se non nutro sincero rispetto per le persone, le mie parole, il tono e i miei modi lo rivelano. Se il mio interlocutore sente la mia mancanza di rispetto mi ricambia con la stessa moneta. Comunicazione impossibile.
Non servono necessariamente appellativi volgari o modi sgarbati: il mio pensiero si esplicita in mille modi molto più impercettibili, ma inesorabili.
Poi c'è la sostanza, il significato stesso del concetto di rispetto: credo si possa riassumere con l'idea di "attenzione". Ti vedo, ti ascolto, ti considero e ti rispondo. Non è semplice? Che ci vuole?
Peccato che, in genere, non ci vediamo affatto; di ascoltarci non se ne parla nemmeno; in quanto a considerarci lasciamo perdere; cosi spesso finiamo per rispondere del tutto a caso.
Da dove comincio?
Visto che intervenire sul pensiero è obiettivamente molto difficile, proviamo a mettere a punto delle strategie per imparare a gestire le situazioni difficili più comuni: imparare ad analizzare e a riflettere su determinate circostanze ed avere un modello comportamentale al quale ispirarsi può aiutare i più timidi ad affrontare ciò che, in fondo, li spaventa. Magari, tra un'analisi e l'altra, tra una discussione e una prova, si riesce anche a vedere se stessi e il modo che ci circonda con occhi diversi.


domenica 17 gennaio 2016

Arte, professione, scienza

DALLO SPEZIALE AL FARMACISTA: UN'ARTE CHE DIVENTA SCIENZA (quinta puntata)

Non ho scelto a caso il titolo di questa serie di post: c'è stato un tempo (felice ?!?) nel quale si parlava della farmacia come di "arte sanitaria" e si diceva del buon farmacista che lavorava "secondo arte". A parte il fatto che in questa accezione il termine "arte" può essere considerato una forma arcaica per "professione", oggi è improponibile pensare che un farmacista nell'esercizio del suo lavoro si comporti come una specie di "artista" e non come quello "scienziato" che di fatto dovrebbe essere.
Tutto apparentemente molto banale e scontato: peccato però che quando ci troviamo di fronte ad una preparazione che ci dà problemi tendiamo a perdere la testa e a cercare formule magiche invece di rifletterci con calma e metodo.
Prendiamo, ad esempio, una soluzione in cui il soluto decide di riprecipitare (c'è quasi sempre di mezzo il minoxidil, maledetto!): non ha senso né rifare a caso il farmaco, né cercare consigli magici dall'amico  taumaturgo nella speranza, vana, che da lontano imponga le mani e compia il miracolo.
Vediamo un po' cosa deve fare un farmacista: innanzi tutto, prima di cominciare si deve conoscere i principi attivi presenti dal punto di vista della struttura chimica, della solubilità e delle possibili incompatibilità e interferenze reciproche.
Seconda fase: si comincia a stilare la procedura, scrivendo tutte le varie fasi e aggiungendo le eventuali osservazioni. È questo il vero significato di una procedura: avere traccia di tutto il lavoro svolto in modo che sia, da una parte, riproducibile e, dall'altra, in caso di problemi, si riesca a ricostruire tutto il percorso di allestimento.
Terzo momento: la verifica del prodotto ottenuto. Nel caso di un precipitato sarebbe interessante guardarlo da vicino, magari con l'aiuto di un microscopio. Ci sono in gioco tre tipi di forze, chimiche, fisiche e chimico-fisiche e due ambienti, quello interno alla preparazione e quello esterno alla preparazione stessa. Ogni forza agisce in un modo diverso e in modo diverso influisce sulla stabilità di una soluzione e sulla formazione di un determinato tipo di precipitato che può essere costituito, tanto per fare un esempio,  da cristalli grandi o agglomerati di cristalli, avere aspetto polverulento fino ad apparire quasi come un gel nelle forme metastabili. Ci sono precipitati che, cambiando le condizioni, possono essere ancora ridisciolti e recuperati ed altri che non offrono grandi speranze.
Credo non serva aggiungere che è del tutto insensato rifare il farmaco senza un'accurata riflessione su quanto è già stato fatto, così come chiedere aiuto senza essere in grado di spiegare dettagliatamente tutto il procedimento seguito: non mi viene in mente nessuna maniera di dare risposte sensate ed esaurienti senza ricorrere ad una sfera di cristallo (o, se preferite, ad un pendolino).

Bilance e pesate


DALLO SPEZIALE AL FARMACISTA: UN'ARTE CHE DIVENTA SCIENZA ( quarta puntata)


E adesso parliamo di bilance. Le abbiamo tutte, spesso anche oggetti piuttosto costosi, ma in pochi le trattano bene e le sanno usare correttamente.
Cominciamo col dire che vanno sempre posate su una lastra di marmo, alta da due a dieci centimetri a seconda della sensibilità della bilancia. Non vanno mai trasportate: almeno una volta all'anno vanno verificate in farmacia da personale qualificato che rilascerà un attestato sull'esito dell'avvenuto controllo e sui valori rilevati. Potranno fornire anche istruzioni dettagliate su come pulirle e mantenerle in ordine: bilance usate per pesare sostanze con diversi gradi di tossicità devono venire bonificate esattamente come tutto il resto degli strumenti e l'intero laboratorio.
Molto spesso i dosaggi dei farmaci sono piuttosto piccoli e richiedono una tecnica di pesata assolutamente rigorosa. Per prima cosa si deve conoscere quali sono le pesate limite più precise della propria bilancia. Facciamo un esempio: il bilanciaio ha certificato che la mia bilancia pesa perfettamente da 100 mg a 10 g. Devo allestire  trenta capsule di captopril da 1 mg, per cui devo pesare 30 mg di principio attivo. La massima precisione la ottengo pesando 100 mg di captopril e preparando un intermedio di lavorazione miscelandolo con 2,90 g dell'eccipiente prescelto. Da ciò prelevo 900 mg e lo porto al volume finale con altro eccipiente. Tutte le pesate sono nei limiti di esattezza della mia bilancia per cui sono sufficientemente precise.
Piccola nota a margine: gli intermedi di lavorazione possono essere utilizzati per preparazioni diverse, devono essere corredati di foglio di lavorazione, vanno etichettati come tutti gli altri farmaci indicando in etichetta "ad esclusivo uso del laboratorio" e conservati secondo le indicazioni del principio attivo (in frigo, in armadio chiuso a chiave, etc).

Libreria

DALLO SPEZIALE AL FARMACISTA: UN'ARTE CHE DIVENTA SCIENZA (terza puntata)


Prima di passare alla valutazione di attrezzature più sofisticate, vediamo che cos'altro serve ad un farmacista per iniziare a dedicarsi alla galenica.
Direi che, per prima cosa, servono dei testi,  a cominciare da quello di chimica generale, spesso tanto odiato quanto non capito e dimenticato. Una cosa è aver studiato in via teorica il comportamento della materia, tutto un altro paio di maniche trovarsi alle prese con un precipitato che non dovrebbe esserci o con una colorazione non prevista. Non limitatevi mai a buttare via tutto o a nascondere il malfatto come con una torta mal lievitata: chiedetevi sempre che cosa può essere successo. Se avete commesso un errore e non capite quale,  non lo correggerete veramente mai.
Altro testo poco amato e ancor meno considerato è la Farmacopea Ufficiale: peccato, in tante parti non brilla per chiarezza né per attualità, ma, a parte gli aspetti normativi ( obsoleti, superati, ma pur sempre in vigore) indica i parametri essenziali ai quali si deve attenere un farmacista preparatore.
Non possono assolutamente mancare le monografie sui principi attivi e sugli eccipienti: mai, MAI, affrontare una nuova preparazione senza prima documentarsi sulle sostanze presenti, le loro caratteristiche chimiche ed il loro comportamento in associazione o nei diversi ambienti di reazione. Di fronte ad una nuova preparazione i passaggi fondamentali ed ineludibili sono: 1) verificare quanto riportato in FU per quanto riguarda i dosaggi ed eventuali monografie dei principi attivi;
                            2) documentarsi adeguatamente sulle caratteristiche chimico fisiche di tutti i componenti presenti.
La consultazione di  vari formulari esistenti, alcuni veramente eccellenti, deve essere tenuto come l'ultimo passo prima di mettersi a lavorare: se prima non vi siete chiariti bene le idee su quello con cui dovete lavorare, finite per comportarvi come quegli aspiranti cuochi che seguono pedestremente le ricette dei migliori libri di cucina, ma non avendo capito nulla di quello che stanno facendo, si chiedono smarriti se debbono proprio usare una la frusta manuale al posto del più pratico e veloce frullatore.

Dotazioni necessarie


DALLO SPEZIALE AL FARMACISTA:UN'ARTE CHE DIVENTA SCIENZA
(seconda puntata)

Cominciamo ora a valutare di che cosa abbiamo bisogno per lavorare al meglio e in sicurezza.
Per prima cosa devo stabilire che cosa so fare e che cosa voglio fare: sembrano due concetti sovrapponibili, in realtà sono separati dall'abisso della concretezza. Quello che so fare lo posso fare subito, adesso; quello che voglio fare, lo farò solo dopo che avrò imparato, se avrò tempo, se troverò chi me lo insegnerà.
Inizio ora, allo stato attuale so o posso fare poco ( es. in parafarmacia): fitoterapici per via orale, creme, emulsioni e paste abbastanza semplici. Mi basta una bilancia,un' incapsulatrice, una cappa per polveri, un bagnomaria ed un miscelatore per creme ed emulsioni (più, naturalmente, vetreria varia, spatole, cucchiai, etc.). Al tema "bilance" (e "pesate") dedicherò un intero post, tanto l'argomento, a mio dire, è delicato e pressante: in questo momento è sufficiente affermare che non ho bisogno di un oggetto particolarmente raffinato, non dovendo pesare minime quantità in modo assolutamente rigoroso. Invece sceglierei una incapsulatrice di buona qualità, magari di un solo formato medio ( 1 o 0), se possibile di acciaio inossidabile o alluminio, poiché si lavano facilmente e le capsule vi scorrono molto bene.
La cappa per polveri è necessaria per proteggere l'operatore dall'inalare di tutto e di più ( ricordatevi sempre che per prima cosa dovete tutelare la sicurezza di chi sta in laboratorio, anche e soprattutto se siete voi stessi); inoltre, per certi estratti vegetali molto colorati come l'estratto secco di curcuma o di ibisco riduce sensibilmente la dispersione e la conseguente colorazione di tutto l'ambiente. Ne consiglio una a braccio, che vi possa accompagnare durante l'intero lavoro.
Per quanto riguarda il bagnomaria è bene sapere che oltre a quello ad acqua esiste quello ad olio (di silicone): non sviluppa muffe, può raggiungere temperature più alte e le mantiene più stabili. In caso di bisogno, ve lo potete anche costruire da soli: è sufficiente una piastra riscaldante, un becher grande ed un termometro idoneo. Una pinza per svitare i tappi è perfetta per tenere fermo ciò che dovete riscaldare.
In un primo tempo un miscelatore ad immersione ( tipo "Minipimer") può andare bene.
È evidente che con questi oggetti farete poca strada. Tuttavia, quando iniziate, non sapete ancora quale successo avrà la vostra impresa: non abbiate fretta, esercitatevi a lungo, ponetevi come obiettivo di essere sempre più precisi e più accurati. Imparate a lavorare con spirito critico e annotatevi problemi, difficoltà ed errori commessi.
Se lo desiderate, ne possiamo parlare assieme: tante teste ragionano sempre meglio di una sola e l'esperienza di alcuni deve essere una ricchezza per tutti.

Scelte razionali



DALLO SPEZIALE AL FARMACISTA. UN'ARTE CHE DIVENTA SCIENZA
(prima puntata)

Ho deciso di riprendere un vecchio progetto, quello cioè di postare periodicamente (uno a settimana: di più proprio non ce la faccio!) piccoli scritti con i quali cercare di rispondere ai quesiti che i colleghi mi pongono più frequentemente.
Mi sono accorta che, molto spesso, il farmacista che si occupa di galenica viene considerato come un cuoco o aspirante tale: trova la ricetta e sommarie indicazioni su come realizzarla. Anche se è molto esperto e competente non si pone mai come un professionista , ma piuttosto come un valido artigiano, i cui risultati siano  più il frutto di abilità pratica che non di rigore scientifico.
Cominciamo dalla domanda che in questo periodo mi viene posta più spesso: per avviare un laboratorio galenico quali apparecchiature debbo comprare?
Le apparecchiature galeniche debbono rispondere a tre requisiti fondamentali:
1. permettermi di eseguire al meglio il mio lavoro
2. permettermi  di lavorare in sicurezza
3. essere economicamente sostenibili.
Partiamo da quest'ultimo punto ( il più ostico): quando investo per l'azienda debbo sempre stabilire se un oggetto mi serve realmente, quale scopo voglio raggiungere e in quanto tempo rientrerò dalle spese.
Facciamo un esempio: ho ricevuto un'eredità e posso scegliere fra comprarmi un oggetto personale costoso o un apparecchio per il mio lavoro. Ora, per quanto riguarda la mia vita privata, se il denaro ha provenienza lecita, ne posso fare quello che voglio, anche gettarlo dalle finestra o darlo in beneficenza. Non ne debbo rispondere a nessun altro se non a me stessa come privato cittadino. Ma se lo voglio investire per l'azienda ho l'obbligo di rispondere alle sue esigenze e usarlo per raggiungere il risultato che mi ero prefissata. Il denaro non è più "mio" in senso stretto, ma dell'azienda e deve portarle  un vantaggio. Mi pongo un obiettivo realistico e a tale debbo tendere.
Se state pensando all'obiezione secondo la quale io e la mia azienda siamo la stessa persona vi debbo subito smentire: NON siamo la stessa cosa, ma nei due ambiti svolgiamo due funzioni completamente diverse, con obblighi e doveri assolutamente distinti. Come privato cittadino mi preoccupo del mio benessere, come imprenditore lavoro per il benessere della mia azienda. Non sempre i due obiettivi coincidono, né debbono necessariamente coincidere.
Per cui è severamente  vietato innamorarsi dell'ultimo marchingegno stratosferico che non userò mai, ma fa tanto "farmacista galenista ultra-iper accessoriato super galattico".

Elogio al caos

Le prime ore del mattino mi sono sempre piaciute.
Mi piace alzarmi presto, andare in cucina, sorseggiare il primo caffè della giornata, pensare con calma alla giornata che mi aspetta mentre dalla finestra entrano tutte le sfumature dell'alba. È un bel momento, in genere mi sento piena di energia e di idee e, soprattutto, mi sembrano tutte facilmente realizzabili.
Poi inizia la guerra e da quel momento è tutta una corsa, un problema, un affanno, una richiesta di miracolo o un intervento di emergenza. Sarebbe bello lavorare con calma, una cosa per volta, una domanda alla volta. Senza contare il telefono: ci sono notti in cui ne sogno lo squillo continuo e mi sveglio agitata in uno stato vicino al panico. O sogno una preparazione che non riesco a fare, un lavoro che non ho completato, una risposta che non riesco a dare.
Va bene, troppa ansia. Cerchiamo di darci una calmata.
La tragedia è che ho troppe idee e troppo poche ore al giorno. Me ne servirebbero almeno il doppio: facciamo un centinaio, dovrebbero bastarmi. Almeno a giorni alterni.
Ho deciso di cominciare con l'organizzarmi meglio e con più metodo. Per prima cosa, devo imparare a dividere la giornata in blocchi, in ognuno dei quali dedicarmi principalmente ad una sola attività. Nel primo schema che ho preparato ho riempito tutto il tempo dalle 6.30 alle 22.30 con brevi pause di servizio (tipo: mangiare, fare la doccia, etc..) per sei giorni alla settimana: non credo che potrei reggere questo ritmo per molto tempo. Sono vecchia, le energie mi stanno scemando, va bene ipercinetica, ma c'è un limite. Cambiamo programma.
Nella seconda proposta ho lasciato dei tempi "cuscinetto" per ricaricarmi fra un impegno e l'altro e smaltire le emergenze: in un soprassalto di onestà ho dovuto riconoscere che le famose emergenze mi fagociterebbero già il primo giorno. Scartata.
Al terzo tentativo sono finalmente giunta all'idea più giusta: divisione equa dei compiti, programmazione dettagliata della giornata con ruolino di marcia rigoroso: chi è dove, cosa deve fare, ognuno con un compito, un compito per ognuno.
Mi sono sentita come quando vado a fare la spesa al supermercato con una lista dettagliata e completa: una vera casalinga modello. Peccato che poi, per tutta la settimana, quando apro il frigo, non ci trovi niente di interessante da mangiare. 

domenica 10 gennaio 2016

Uomo vs materia

Mio padre diceva di amare  la chimica perché nell'eterno conflitto fra l'uomo e la materia, l'uomo ha sempre torto e la materia sempre ragione. Nessun dubbio, nessuna incertezza: se in laboratorio le cose non vanno come vuoi tu, la colpa è sempre e solo tua. La natura parla il linguaggio della chimica: se non lo capisci la carenza è tua. Punto.
Ho sempre trovato tutto questo estremamente rassicurante: eliminati i diversi punti di vista, cancellate opinioni ed emozioni personali, tutto si risolve nel più diretto e brutale dei modi. Non hai studiato abbastanza, le tue riflessioni non sono state sufficienti, non hai ponderato bene ogni cosa. China la testa, mastica amaro e ricomincia da capo. E questa volta cerca di impegnarti di più.
Rifugiarsi in un mondo dove i confini sono definiti e mancano ombre e sfumature può essere molto rilassante: peccato che fuori dalla bolla tutto sia molto più complicato.
Gli esseri umani, benché alla fine siano un agglomerato di atomi e molecole, sono governati da un'entità impalpabile ed eterea che possiamo chiamare anima, ma anche pensiero o ragione o sentimento. Non ha dimensioni, nessuno l'ha mai vista, non sappiamo neppure esattamente com'è: crediamo abbia un potere illimitato, ma si spegne in un attimo. Le attribuiamo tutte le virtù, ma è più fragile del cristallo più fragile.
Ecco noi, per esempio. Abbiamo appena concluso un buon anno e siamo piene di progetti per il futuro: alterniamo euforia ed entusiasmo a momenti di sconforto per non dire panico quando ci scontriamo con  normali dissensi e contestazioni. Abbiamo fatto una scelta di campo (non voglio definirla etica, secondo me l'etica è un'altra cosa, diciamo professionale):siamo farmaciste e facciamo le farmaciste. E se questo comporta negare un collirio contenente antibiotico e cortisone ad un cliente che non ha la ricetta, il nostro dovere è spiegare la necessità non di un'impegnativa come atto burocratico, ma di una attenta valutazione da parte di un esperto per evitare danni anche molto seri agli occhi. E se il suddetto cliente ritorna indignato per aver perso tempo in quanto il medico gli ha prescritto esattamente quello che lui voleva senza neppure guardarlo e se la prende con noi che siamo così arroganti (a dire il vero, lui ha detto, del tutto a sproposito, "tuttologi") da trovare difficoltà anche dove non c'è ne sono: beh, mi dispiace, ma non credo proprio che siamo noi dalla parte del torto. L'ho detto e lo ripeto: siamo farmacisti, il farmaco è il nostro mondo, in questo campo siamo i sanitari più competenti.
 Per favore, lasciateci lavorare.

mercoledì 6 gennaio 2016

L'arte del comando

Vorrei dire subito una cosa: comandare non solo non è facile, ma in genere comporta una posizione piuttosto scomoda.
Innanzitutto, in ogni organizzazione è indispensabile che ci sia un capo: mi rendo conto che per i collaboratori questo non è sempre agevole da digerire. Ma senza un responsabile che organizzi, regoli e disciplini il lavoro non c'è speranza di ottenere qualche risultato. L'umanità in tutta la sua storia ha fatto innumerevoli tentativi di sopprimere le gerarchie, ma sono tutti miseramente falliti.
Certo, bisogna intendersi sul concetto di comando: il potere è indissolubilmente legato all'idea di responsabilità, e questa lo rende decisamente più problematico.
Bisogna anche aggiungere che non sempre l'attitudine al comando è innata e non si eredita: innato è in una certa misura il carisma personale, il ruolo si può ereditare, ma la realizzazione è il frutto dell'impegno costante e di tanto lavoro. Una volta ho visto un'immagine che mi ha molto colpito: da una parte c'era una ballerina nello splendore della sua armonia e leggerezza e dall'altra i suoi piedi nudi deformi e piagati. Siamo disposti a riconoscere la fatica dietro il successo di artisti ed atleti: per altri ruoli preferiamo vederci solo la fortuna e il privilegio. Fortuna e privilegio possono offrire l'opportunità iniziale, come un fisico dotato o una predisposizione naturale. Poi, è tutto volontà e determinazione.
Bisogna sapere dove si vuole andare, su quali forze si può contare e quali regole si debbono rispettare. Ancora una volta niente sconti o scorciatoie: se non so che cosa voglio conquistare, come è composto il mio esercito e come voglio ottenere la vittoria, combatto a caso e spreco energie e risorse. Oltre a creare malumore e confusione.
Prendiamo, ad esempio, la questione delle regole: che piaccia o no, la società civile non può fare a meno di regole chiare, semplici ed equilibrate. Anzi, a dire il vero, ogni agglomerato di esseri viventi, ha le sue regole: più o meno complesse, più o meno elaborate, più o meno eque, ma sempre indispensabili. Rispondono all'esigenza suprema della sopravvivenza, se non come individualità, almeno come collettività. Non si ottiene maggior consenso dalla loro mancata applicazione: un genitore che rinuncia ad essere normativo non cresce dei figli più affezionati, ma solo più confusi e insicuri.
Il segreto sta in due aggettivi: equilibrate e condivise. Non credo servano altre parole.

domenica 3 gennaio 2016

Siamo arrivati ai buoni propositi per l'anno nuovo

È da ieri che ci penso: per una volta mi piacerebbe fare una cosa ragionata, credibile e realista, non una specie di elenco che inizia con "sarò più calma, mangerò meglio, etc", per finire "lotterò per la pace nel mondo". Non ho nessuna intenzione di muovere un dito per la pace nel mondo, non ci credo, ho la guerra in testa (lo dice una mia collaboratrice) oltre ad un sacco di altre idee.
Dopo lunga e penosa riflessione ho deciso: dedicherò il 2016 alla comunicazione.
 Mi sono accorta che è il vero punto dolente dei rapporti umani in genere e del mio personale microcosmo in particolare.
Spesso ascolto dal laboratorio pezzi di dialoghi che si intrecciano in farmacia: li sento, ma non vedo chi li pronuncia; colgo toni e inflessioni, ma mi mancano le espressioni ed il linguaggio del corpo. È un esercizio interessante perché mi permette di analizzare la qualità del processo comunicativo.
Mio padre diceva che mia madre quando parlava sembrava che accendesse l'audio a caso in mezzo al flusso dei suoi pensieri. Bene, ho scoperto che questo, in modo più o meno marcato, accade quasi a tutti e anche molto di frequente. Intanto, molto spesso, manca il soggetto della frase quando non è per niente sottinteso: sembra una sciocchezza, ma, vi assicuro, nelle comunicazioni di servizio cercare di far mente locale su di che cosa stiamo parlando fa perdere un mucchio  di tempo e ingenera un sacco di equivoci.
Un altro elemento critico riguarda i tempi della comunicazioni: parlare ad una persona concentrata in un altro lavoro non solo la disturba, ma, soprattutto, è del tutto inefficace. Lo ripeto almeno venti volte al giorno, ma le brutte abitudini sono dure a morire.
Sul fronte dei contenuti, invece, il problema è più complicato: per qualche bizzarro motivo si tende a ritenere più educato (o meno aggressivo) non parlare chiaramente e direttamente, ma tacere sul momento per brontolare o criticare o contestare in separata sede, in assenza dell'interlocutore d'elezione. In questo caso interviene una certa confusione fra forma e sostanza: dire ad una collega " se fai in questo modo mi metti in difficoltà: puoi fare in quest'altro modo?" non può essere considerato in alcun modo una mancanza di rispetto  o fonte di offesa da lavare col sangue. Tacere di fronte a qualcosa che disturba per poi o sbottare in modo brusco quando si è giunti al limite o mugugnare a mezza voce con tutti quelli che capitano a tiro tranne il diretto interessato  è molto peggio.  I dissapori si ingigantiscono ed il malumore serpeggia senza tregua.
Il punto vero è un altro: talvolta non è un singolo gesto o un comportamento quello che disturba, ma un insieme di atteggiamenti, un modo di porsi in generale ed è molto difficile affrontare il sentire confuso ed indefinito che domina la situazione. È inutile negarlo: nel gruppo tendono a prevalere più debolezze e fragilità che non i punti di forza di ciascuno.
E bisogna chiarire un'altra questione: per lavorare bene assieme e costituire una squadra unita non si deve essere necessariamente amici nel senso più comune che si attribuisce a questo termine. Stare bene con altre persone e collaborare con esse non richiede per forza una condivisione anche della propria sfera privata. Se nasce spontaneamente un legame più intimo è un'ottima cosa, ma ognuno a diritto alla salvaguardia e al rispetto della propria individualità e delle proprie scelte. Quando ci si addentra nel mondo dei sentimenti ci si caccia in un ginepraio da cui è difficile uscirne indenni o, perlomeno, con pochi danni.
Mi consola il fatto che c'è lavoro almeno per  altri tre anni: fino al 2019 sono a posto con i buoni propositi.

venerdì 1 gennaio 2016

Ci sono dei riti che non si riesce proprio ad evitare

A fine anno si deve fare un bilancio se non altro per sancire il passaggio e potersi illudere di ricominciare da capo. È un po come se dicessimo: l'anno è finito, chiuso. Adesso inizia una cosa nuova e la partita è ancora tutta da giocare. Contiamo i morti e i feriti, riuniamo le truppe e ributtiamoci nella mischia, che tutto può ancora succedere, tutto può ancora avverarsi. Come se avesse un qualunque significato il fatto che i sogni si realizzino a gennaio piuttosto che a giugno, a novembre e non a marzo. Come se dovessimo compilare un altro inventario da presentare ad un'entità superiore per un premio, per un biasimo.
Siamo i figli delle diete che devono cominciare il lunedì, smettiamo di fumare solo il primo giorno del mese, invochiamo nuovi inizi con riti carismatici per esorcizzare la paura di fallire, per supplire ad una convinzione che latita.
Tant'è: cominciamo con le cose brutte.
Abbiamo perso alcuni pazienti cronici: se mese dopo mese ti occupi di una persona, dei suoi malanni, l'accompagni ad ogni cambio di terapia, condividi ogni progresso e ogni aggravamento, questa diventa un membro della famiglia allargata della farmacia. Quando se ne va, sei pervaso da sentimenti confusi nei quali si mescolano un senso di fallimento, un'idea di abbandono, il pensiero di aver subìto  una grave ingiustizia. Cancellarlo dall'elenco settimanale dei pazienti in uscita è un gesto triste che sa di sconfitta.
Ci sono state tutta una serie di crisi, personali e collettive: alcune brevi e violente, altre più striscianti e  subdole e per questo più difficili da affrontare. Già lavorare in nove in ottanta metri quadri è un'avventura: in compenso, siamo diventate maestre di Tetris, ossia l'arte dell'incastro di persone e di cose. La parola d'ordine è "collaborazione", ma è una parola difficile e ha la sua origine nel concetto di comunicazione. Ci dobbiamo ancora lavorare, e parecchio, ma questa è tutta un'altra storia.
Le cose belle.
Il "progetto" sul quale poggia l'intera farmacia ha preso forma definitiva e comincia ad emergere con chiarezza. Ho fatto talmente tanti tentativi, abbiamo fatto talmente tante false partenze, ci sono stati talmente tanti aggiustamenti di rotta, che quasi non mi rendevo conto che invece il quadro era chiaro e la strada tracciata. Me lo ha fatto notare ieri un cliente: " dottoressa", mi ha detto,"qui si deve aspettare, c'è sempre la fila, ma se uno ha un problema e vuole una risposta qui deve venire. A gli altri il dolce, a voi le rogne: ma va bene così, vero?". Si, va bene così.
Ho imparato a delegare: un gradino alla volta, ma il delirio di onnipotenza comincia a lasciare il passo ad una nuova consapevolezza dei miei limiti. Cerco di curare maggiormente la qualità di quello che faccio e responsabilizzo di più chi lavora con me. Intanto, soprattutto negli ultimi mesi, mi sono imposta di rispettare l'orario di lavoro: niente più inizi alle 6.30, basta alle dodici ore filate. Quando sono stanca combino solo guai; e poi, ogni tanto, devo prendere una certa distanza dalle cose, mi devo allontanare, altrimenti perdo senno e razionalità.
In fondo, non è stato un anno molto diverso da tutti quelli passati e, speriamo, da quelli futuri.
Per i buoni propositi, il prossimo post. Non ho ancora ben deciso.