domenica 29 maggio 2016

Uomini vs donne

Mi sono resa conto di aver espresso male il mio pensiero.
Magari è un pensiero comunque stupido, però mi piacerebbe chiarire una serie di punti.
Cominciamo col dire che uomini e donne sono diversi e da molteplici punti di vista, fisiologico, antropologico, sociologico, culturale.
Professionalità, competenza, preparazione non c'entrano: in questo sono assolutamente equiparabili, ci mancherebbe.
 Anche la sensibilità, l'intuito, la delicatezza, dimensioni dell'anima, non hanno sesso. Appartengono ad ogni singolo individuo, alla sua più intima essenza, a ciò che lo caratterizza come unico ed irripetibile essere umano.
Però non sono uguali. Non affrontano la vita nello stesso modo. Non reagiscono nello stesso modo. Hanno predisposizioni  e attitudini generalmente diverse: non migliori, non peggiori, tutte ugualmente importanti, tutte ugualmente necessarie allo sviluppo e al progresso dell'evoluzione sociale. Complementari, ma profondamente diverse. Corollario di questo assunto è che ambienti a predominanza maschile o femminile necessitano di attenzioni e accenti diversi.
Mi ha colpito, invece, come si  sia subito saltato ad una valutazione di merito: le donne sono migliori. No, sono gli uomini ad essere più bravi.
Non ho mai voluto intendere una classifica del genere. Non credo abbia neppure realmente senso.
C'è stato, poi, un nutrito gruppo di persone disturbate dalla distinzione di genere. Perché? Non cogliere le differenze non significa tutelare un gruppo rispetta all'altro: significa solo non offrire le stesse opportunità a tutti per esprimersi al meglio delle proprie potenzialità.
Ma andiamo con ordine: non credo si possa negare che, in genere, il testosterone ha condizionato le reazioni maschili, com'era logico prevedibile e giusto. In alcuni casi, l'indole, l'educazione e l'ironia di alcuni colleghi hanno mediato in modo molto garbato e simpatico i commenti. In altri, l'istinto maschile per la guerra  ha preso il sopravvento.
Possiamo azzardare una riflessione? Nella maggior parte dei casi gli uomini danno il meglio di sé quando si trovano a dover raggiungere un obiettivo ben preciso. Generalmente, di fronte ad un progetto definito tendono al raggiungimento di uno scopo in modo diretto, efficace, senza distrazioni.Invece, spesso, mi sembra si trovino molto meno a proprio agio in tutte quelle situazioni in cui ci si deve scontrare  con le infinite irrazionalità e contraddizioni del genere umano.
Nel nostro lavoro ci sono momenti in cui devi occuparti di persone che non si rendono neppure conto di avere un problema, che hanno bisogno di aiuto ma non sono sicure di volerlo da te, che non accettano le possibili soluzioni e mettono in discussione il tuo lavoro per principio. Ecco, in questi casi in genere le farmaciste riescono a trovare un modo per aprire delle brecce nelle pareti più aspre e impervie. L'ho definito, sicuramente impropriamente, senso di accudimento: in realtà, probabilmente, si riconoscono di più in una funzione di mediazione e persuasione.
Ci sono, poi, due discriminanti importanti: il progetto attorno al quale ruota la farmacia e il tipo di organizzazione che dovrebbe dominarla.
Ad esempio, la mission e il core  business della nostra farmacia è la compliance e aderenza alla terapia. Tutte noi abbiamo sposato una causa non comune, né facile, né di immediato successo.
Il primo, difficile ostacolo è il paziente stesso: servono doti di dedizione, determinazione, pazienza e misura non comuni per prendere in carico un malato cronico, accompagnarlo nel tempo, ottenere dei risultati e mantenerli.
La mia squadra ha bisogno di un'organizzazione minuziosa e puntuale, ma deve  anche sentire il lavoro come un'ideale estensione della propria vita e della propria casa, perché le donne raramente riescono a separare nettamente i due mondi.  Hanno bisogno di punti di riferimento precisi, regole chiare e strategie dettagliate per raggiungere quella sicurezza e quella autorevolezza indispensabili ad esprimere al meglio la loro innegabile professionalità.
Come responsabile ho il dovere di tradurne i bisogni, interpretare le difficoltà, andare incontro alle loro aspettative. E pazienza se questo mi fa apparire una donnetta vacua e inconsistente. Probabilmente lo sono, ma a me va bene anche così.

sabato 21 maggio 2016

Se la farmacia è donna

Dobbiamo assolutamente creare il gruppo dei farmacisti insonni.
Sono nel pieno di una delle mie crisi insonnia-ansia-preoccupazione-eccitazione-terrore.
I laboratori sono a buon punto: praticamente mancano solo le porte e i mobili. Sono bellissimi. Perlomeno, a me sembrano bellissimi.
Alla sera, dopo che tutti sono andati via, mi fermo a guardare attentamente ogni progresso, ogni passo avanti fatto in giornata. Controllo le saldature del linoleum, la simmetria delle plafoniere, la gradevolezza dei colori scelti con tanta cura: lo so che mi dovrebbe interessare solo la loro praticità e l'efficienza, ma non finisco mai di stupirmi per come siano anche belli ed eleganti. Pieni di luce, vorrei che diventassero un posto piacevole dove lavorare.
Durante la settimana, parlando con due persone diverse, siamo giunti in entrami i casi alla conclusione che fare il farmacista è un lavoro essenzialmente femminile. Lo è per il senso di accudimento che richiede, per quella speciale predisposizione che hanno in particolare modo le donne di prendersi cura delle persone. Non è solo una questione di pazienza o di cortesia: è una forma, mi azzardo a dire innata, di dedizione che appartiene in modo preponderante alla femminilità.
Per una donna, in ambito lavorativo, due cose sono importanti: l'organizzazione e l'ambiente. Da sempre siamo chiamate alla gestione della casa e della famiglia: per quanto impegnate in una professione, con giornate in perenne equilibrio fra decine di impegni e responsabilità  diversi, la sfera privata e la famiglia rimangono il nostro pensiero predominante. Lavorare in modo pianificato, strutturato e programmato ci aiuta offrendoci una maggior tranquillità; l'ambiente gradevole diventa un luogo da amare, non più una prigione dalla quale evadere, ma una seconda casa confortevole e sicura.
Me ne sono accorta per caso: nel momento che ho preso coraggio e ho dato inizio ai lavori in farmacia, diventava impellente che anche la mia casa diventasse più mia. Piano piano ho cominciato a notare tutte quelle piccole cose che non mi piacevano, quei dettagli che per fretta o pigrizia mal sopportavo da molti anni: decidevo l'illuminazione dei laboratori e cambiavo un lampadario in salotto. Sceglievo i colori di pavimento e pareti e sostituivo le fodere dei divani. Il bagno, poi, è stato l'apoteosi: l'ho voluto tutto di vetro e acciaio. Due beute, un cilindro graduato e un bagnomaria non sarebbero fuori posto. Anzi, mi è appena venuta un'idea: perché non usare un becher per gli spazzolini da denti? Sarebbe perfetto, si intonerebbe a meraviglia.
Ho bisogno di armonia e continuità: devo spostarmi da un luogo all'altro senza strappi, devo sentire che io e tutto quello che mi circonda abbiamo raggiunto un certo equilibrio.
Ieri mia figlia mi ha chiesto se le potevo prestare un barattolo da mezzo chilo. Non ho pensato a chiederle per che cosa le servisse, mi sono preoccupata solo se dovesse essere graduato e di volume noto. Pare che la mia reazione, ancora una volta, abbia sconcertato i suoi amici: queste non sono le domande che fa una mamma normale. Avete ragione, portate tanta pazienza, ma una mamma farmacista, certe volte, è una mamma un po' speciale.

domenica 15 maggio 2016

Il tarlo del dubbio

Ho molti amici farmacisti. Forse molti è una parola grossa, però ne ho un bel numero.
La maggior parte non li conosco di persona o abbiamo avuto solo brevissimi contatti: la tecnologia ha fatto il resto. Sono tutte persone un po' speciali, oltre che simpatiche e molto gentili: ci siamo conosciuti perché a tutti noi manca qualcosa, forse non sappiamo esattamente cosa, ma ci è abbastanza chiaro che fare i farmacisti è altro rispetto a quanto ci è stato indicato finora.
È inutile, anche on line devi avere dei punti di contatto o ci si stufa presto: non si deve essere per forza d'accordo, non ci devono essere plausi scontati, è sufficiente riconoscere le stesse domande.
Ognuno di noi ci prova a rispondere: più di tutto cerca un conforto, la conferma di non essere poi così solo, che altri nel mondo sperimentano diverse avventure, che qualcuno di noi ce l'ha fatta, ha vinto la sfida.
Credo che non siamo d'accordo neppure sui termini del problema: è questo è un vero guaio, perché solo la corretta formulazione di un quesito rende possibile una soluzione concreta.
Facciamo anche fatica ad affrontarlo  in modo semplice e diretto: quasi nessuno ha il coraggio di riconoscere in sé il senso di profonda insoddisfazione che ormai serpeggia un po' dovunque. Preferiamo parlare di una fantomatica età dell'oro della professione: io c'ero, mia madre e mia nonna erano farmaciste, non me le ricordo particolarmente solerti e impegnate. È vero, soprattutto mia nonna i farmaci li preparava tutti a mano, ma mestiere e abitudini non fanno metodo e scienza. Mia madre odiava questo lavoro: figlia primogenita, fu forzata a fare una scelta che non le assomigliava per niente. Appena ha potuto è fuggita senza esserci veramente mai stata.
Oggi, nel guado, ci viene richiesto uno sforzo quasi inumano: inventarci una nuova funzione, crearci dal nulla un'identità originale. Gli elementi ci sono, i bisogni premono urgenti: manca il coraggio di ricominciare da capo. Con nuovi criteri, senza nessuna garanzia, niente reti di sicurezza.
Eppure è la più grande opportunità che ci viene offerta da cento anni a questa parte: nessuna occasione fu mai altrettanto propizia. Se stai per morire è meglio lasciare, farsi da parte, gettare la spugna, dedicarsi ad altre incombenze, ritirarsi a vita privata: mi ritiro dal mondo, troverò altro pane e Nutella, ricomincerò a respirare liberamente.
A me la Nutella non piace: mi sembra di volerla, magari la cerco, la attacco convinta, al primo assaggio la lascio. Non mi piace neppure aspettare che qualcuno mi offra un miracolo, una soluzione a tutte le ansie, la chiave di volta a tutti i problemi: preferisco inventarmi un presente diverso, per il futuro ci penserò. Ho sempre creduto che dentro ciascuno di noi ci siano già tutte le risposte, ogni decisione è già stata presa. Bisogna solo scoprire qual'è. Ci potrebbero essere delle sorprese: tieniti pronto ad affrontare delle inversioni di rotta. Stavo marciando convinta verso una meta sicura, razionale, ragionevole, logica : l'obiettivo improvvisamente è sparito. Ho voglia di altro, non ne ero cosciente, ma avevo già stabilito altrimenti.
Non avevo mai visto con occhi diversi, preferivo non farmi tante domande: tutto era semplice e chiaro, suonava sicuro, ne andavo anche fiera. Tutto deciso, lineare, concreto. Niente dubbi, alibi, scuse.
Qualcuno ci prova, lancia un'idea. Un altro protesta. Un terzo pone mille questioni, il quarto si oppone a tutto e per tutto: piano piano, un passo avanti e tre indietro, il gruppo si forma, si apre, si rompe, rinasce. I dubbi ci sono tutti, le perplessità crescono a mille, la curiosità si accende e si spegne: il tarlo ha ormai preso posto. Solo le convinzioni davvero granitiche possono resistere intatte.

sabato 7 maggio 2016

Sono viva ed esisto

C'è una domanda che sempre più spesso mi viene fatta. In vari toni e con diverse sfumature, ma il nocciolo è sempre più o meno lo stesso: perché ti sei messa a scrivere un blog? E sui farmacisti, poi, come se fossero un argomento vagamente interessante per qualcuno...
Effettivamente, devo riconoscere che potevo fare di meglio, potevo parlare, per esempio, di fiori e di orchidee, di questioni morali e di massimi sistemi, dell'arte sottile di coniugare arte scienza e poesia e vita interiore: tutte cose intriganti, che avrebbero attratto sicuramente un pubblico più vasto e ben disposto.
Il blog è nato con l'idea di sdoganare i farmacisti, far comprendere che anche loro, in fondo in fondo, hanno un'anima, non sono solo quelle macchine da soldi dell'immaginario collettivo. Una farmacia è un luogo di lavoro complesso, pericoloso, meno comodo e tranquillo di quello che sembra da fuori. La professione del farmacista oggi richiede competenza, dedizione, impegno e, perché no, anche coraggio. Coraggio per confrontarsi con opinioni non sempre così lusinghiere, coraggio per rischiare di essere e  fare cose diverse.
Poi mi ha preso la mano. Ho scoperto che scriverlo mi piace moltissimo. In genere la stesura definitiva la riservo alla domenica, ma ci penso e ci lavoro tutta la settimana.
Al mattino, molto presto, bevo il caffè, guardo la posta e scrivo una frase. Regolarmente la cancello, la riscrivo almeno altre cinque volte e decido che non è di questo che voglio parlare. Magari il risultato non vale granché, ma posso assicurare che mi impegna e mi prende come se dovesse uscirne un gran bel lavoro.
Non so mai come andrà a finire. Invidio con tutta l'anima coloro che organizzano i propri pensieri in dettagliate scalette e riescono anche a rispettarle.  Mi piace credere che preferisco ricevere delle sorprese: se conoscessi prima il finale, mi annoierei a morte nella stesura.
Ogni tanto rileggo i consigli per una buona scrittura di Umberto Eco e mi avvilisco: sono saggi, equilibrati, assolutamente condivisibili. Non ne seguo neanche uno: ci provo, ma le parole non ubbidiscono, suonano male, non rispettano il ritmo che trovano nella mia testa. Anche in questo caso si tratta di stabilire che cosa sia più importante, se le regole o la mia testa: scelgo la mia testa, perché non sono Dante e non ho l'imperativo morale di scrivere la Divina Commedia. Anzi, come mi disse all'inizio un collega, non sono Voltaire e Candido è già stato scritto: lui non poteva saperlo, ma interpretai questa critica come uno dei più bei complimenti mai ricevuti.
Non so se ho successo, se chi mi legge lo fa per piacere o solo spinto dalla curiosità per possibili pettegolezzi. Al contrario di come a molti piace credere, non si scrive per se stessi. Lo stesso giorno in cui l'uomo ha inventato il linguaggio, ha inventato la scrittura. Abbiamo bisogno di comunicare, di far sapere che siamo vivi, che esistiamo. E lo vogliamo fare nel modo più incisivo possibile, e questo dalla notte dei tempi. Almeno alle persone che amiamo, a quelle che stimiamo, a coloro a cui aspiriamo piacere.
 So che ho conquistato mia figlia, il mio pubblico più critico ed esigente. Ho capito che ce l'avevo fatta quando ha cominciato a chiedermi al sabato a che punto ero, a che ora avrei pubblicato: un po' teme che parli  di lei (ci tiene a precisare che si dissocia con forza da qualunque descrizione io le faccia), un po' si diverte, ma soprattutto mi sembra interessata  a quello che scrivo. È la mia cliente più difficile, per principio non si fida, indaga tutti i perché e tutti i percome, vuole sapere, e non si accontenta mai  di una risposta qualsiasi: mi descrive ai suoi amici, oscillando fra desiderio aneddotico e orgoglio represso, li coinvolge, temo di essere diventata una specie di tormentone di gruppo. Non potendo vantare una mamma particolarmente accudente, rilancia con una mamma diversa e mezza matta. Anche se questa fosse l'unica nota positiva, mi sembra un gran bel risultato.
Mio figlio invece tace, e anche questo è un altro bel risultato, perché come erede diretto nonché reincarnazione puntuale del nonno, osserva, analizza, valuta, apparentemente svagato, ma invece attentissimo, e si esprime unicamente se non è d'accordo: non sprechiamo fiato e parole se va tutto bene, l'energia ci serve solo per sottolineare il dissenso.
Cos'altro posso dire? Che cos'altro volete che dica? Che sono megalomane, presuntuosa, incosciente, temeraria ed illusa? Naturalmente sì, e probabilmente anche peggio. Può bastare, a mia parziale discolpa, o almeno ad attenuante generica, che in tutto quello che faccio non risparmio l'impegno, non lesino sforzi, non sottovaluto niente?
In realtà, almeno io mi diverto moltissimo, e anche questo è un gran bel risultato

domenica 1 maggio 2016

Ho cercato l'uomo, anzi il paziente

Sono tornata.
Mi sono riposata, nel senso che mi sono staccata dalla vita di tutti i giorni, e, soprattutto, mi sono rilassata. Poi, siccome tutti i peccati vanno rigorosamente scontati, come ho messo piede in farmacia mi hanno assalita con un ventaglio di problemi ed urgenze veramente fantasioso. E, siccome, oltre al resto, sono masochista ed ho un ego piuttosto fragile, ne sono stata anche lusingata, mi sono sentita indispensabile e realizzata nel profondo. Misteri insondabili dell'animo umano, nonché infinite perverse contraddizioni degli esseri umani.
Però non sono stata inattiva: a parte il camminare , inevitabile visto che stavo facendo un trekking itinerante, ho fatto un'altra cosa che mi piace sempre moltissimo. Ho osservato e ho ascoltato. Ho guardato i gesti e i comportamenti, li ho raffrontati alle parole; ho prestato attenzione ai silenzi, alle omissioni, ai dettagli non detti. Ho spiato gli atteggiamenti involontari, il linguaggio dei corpi, le espressioni dei volti, le mani e le voci.
Cercavo delle risposte ai dubbi che da sempre mi tormentano: parliamo continuamente di salute, prevenzione, malattie croniche, compliance e aderenza alle terapie. Abbiamo stabilito priorità, definito bisogni, indicato percorsi e rimedi: ma le persone cosa ne pensano veramente? Siamo bravissimi nella teoria, ma la realtà, quella minuta, di tutti i giorni, quella di tutti i diversi individui, quella com'è?
È un po' quello che accade con le previsioni del tempo: fuori dalla finestra ci guardiamo mai? Certe volte, quasi sempre in verità, sarebbe molto meglio. Meno false promesse, illusioni, idee preconcette. E puoi anche scoprire che una pioggerella leggera rende il cammino più fresco e piacevole o un sole radioso può rivelarsi fastidioso e spossante.
Un esempio per tutti: non finirò  mai di stupirmi della scarsa considerazione in cui vengono tenuti i farmacisti.  Bellissimi i sondaggi nei quali inevitabilmente risultiamo i più amati dagli italiani, peccato  che all'atto pratico non  ci venga riconosciuta una gran competenza e preparazione. Come quando mi descrivono terapie di vario genere e scoprono con immensa meraviglia che, non solo le conosco, ma sono anche in grado di definirle e spiegarle. Magari anche criticarle, generalmente con argomentazioni razionali. Allora scatta la difesa per eccellenza: non siamo tutti uguali, se ad uno fa bene un rimedio, per un altro è veleno, non si può mai  sapere così in generale. Vale la pena spiegare che esiste una scienza, chiamata farmacologia, che si sforza di chiarire proprio questo? Che i farmacisti si chiamano in tal modo perché hanno studiato le sostanze ad azione terapeutica, i loro effetti collaterali e le loro controindicazioni, cioè quando un farmaco cessa di curare e diviene un veleno? Che tutti questi dati non sono lasciati al caso, ma  si possono misurare, quantificare, elaborare, per fornirci uno strumento che può offrire talvolta una concreta possibilità di guarigione, molto spesso una speranza di miglioramento e salute? Che non bastano quattro informazioni raffazzonate, frammiste a luoghi comuni e idee peregrine, per affrontare e gestire una patologia grave e complessa, che non va mai in vacanza, non molla la presa anche se non si appalesa subito in sintomi dolorosi e invalidanti?
Ecco, questo è un altro argomento interessante: la percezione delle proprie patologie, l'idea che ciascuno elabora sul proprio stato di salute, la considerazione in cui tiene il proprio stile di vita. Vi è una sorta di pudore, forse di vergogna ad ammettere di essere malati; oppure un compiacimento sottile, quasi di sfida; raramente il male diventa strumento per ricevere attenzioni gratuite. Mai, ma proprio mai, uno stato di fatto, una situazione possibile da affrontare decisi, preparati, organizzati. Si preferisce affidarsi al consolatorio pensiero secondo cui su tutto domina la mente: in fondo, basta volerlo e tutto diventa banale accidente momentaneo, comune incidente di percorso, vago inconveniente da dimenticare al più presto. E per volerlo non serve impegnarsi, cambiare tutte quelle cattive abitudini che ci hanno fatto arrivare fin qui, assumere i farmaci giusti ed evitare gli inutili: ognuno ha una personale formula magica, una sua propria teoria miracolosa, e pazienza se il mondo e la scienza non sono d'accordo. Tanto, si sa, ciascuno è diverso: chi ha detto che a me debbono fare bene le stesse cose che curano te?