sabato 25 giugno 2016

Piccola rivoluzione copernicana

Finalmente è arrivato il caldo.
Dopo un mese di piogge e freddo le giornate iniziano luminose e preannunciano temperature estive.
Naturalmente sono già iniziate le lamentele per il caldo: archiviate le proteste per una primavera capricciosa e altalenante (ma non erano sparite le mezze stagioni?), sono ufficialmente iniziate quelle per il sole, l'afa, la temperatura insopportabile.
Sono aumentati anche nervosismo e insofferenza da parte dei clienti, la voglia di ferie e di mare un po' di tutti, i nostri lavori edilizi che non vedono una fine: il risultato è una situazione che in certi momenti sfiora, raggiunge e supera veri momenti di delirio collettivo.
Intanto stiamo lavorando barcamenandoci in spazi sempre più problematici: pare che la settimana prossima ci completino la stanza che abbiamo deciso di destinare all'ufficio. Nel frattempo, continuiamo a spostare enormi pile di carte, libri, caterve di documenti che non trovano pace da nessuna parte, smarrendosi e confondendosi e mescolandosi senza alcuna speranza di arrivare integri e rintracciabili alla destinazione finale.
La cosa più simpatica riguarda i condizionatori: sono tutti istallati e pagati, ma non sono stati allacciati alla rete elettrica, per cui, oltre al resto, dobbiamo fare la caccia al tesoro in un caldo appiccicoso e snervante. A turno sono passati i vari responsabili, elettricista idraulico architetto, hanno preso atto della situazione, hanno convenuto che l'ambiente è invivibile, e se ne sono andati. Ci sarà dato sapere, prima del prossimo inverno, se potremo contare su un efficiente impianto di climatizzazione? Per quale misterioso motivo le persone che ci stanno ancora lavorando, pittori falegnami vetrai, devono farlo in condizioni disumane avendo a disposizione tutto quello che serve per  rendere l'ambiente più accettabile? Mistero.
Al di là delle crisi isteriche che ormai fatico a tenere sotto controllo, mi rimane la curiosità intellettuale di capire la logica di certe decisioni, perché faccio veramente molta fatica ad accettare l'idea che chi progetta ed organizza un lavoro non si renda conto dei problemi e delle difficoltà pratiche, e facilmente superabili, che si creano continuamente.
Poi, siccome tutte le esperienze sono in realtà un'occasione per ampliare l'ambito della riflessione, mi sono venuti subito alla mente tutta una serie di osservazioni e paralleli nel nostro mondo professionale e ne sono uscita sconcertata.
È fuor di dubbio che tutti i giorni dobbiamo fare i conti con una serie di regole illogiche, raffazzonate,  antiquate per non dire obsolete. Possibile che a nessuno sia mai venuto in mente che il primo, essenziale passo da fare per far approdare la farmacia nel nuovo millennio (finalmente!) sia cambiare le regole del servizio farmaceutico? Discutiamo in modo del tutto improduttivo di nuovi servizi e ruoli e continuiamo ad accettare che la validità di una ricetta sia determinata rigidamente dalla categoria del farmaco e non dalla volontà del medico? Possibile che tutto questo sembri assurdo solo a me?
In un mondo razionale ed efficiente il medico non solo stabilisce la terapia, ma ne fissa anche la durata e il farmacista si adopera perché il paziente abbia la quantità giusta di farmaco per rispettare la volontà del medico: è impensabile, assurdo e irrazionale che le regole dell'esitabilità siano stabilite a priori, peraltro in base ad una categorizzazione dei farmaci vecchia e ampiamente superata. Accettare e mantenere un sistema del genere vuol dire deresponsabilizzare i medici, che non sono neppure liberi di organizzare una strategia terapeutica; appesantire una burocrazia già fin troppo opprimente per tutti; banalizzare il farmaco stesso, che cessa di essere rimedio personalizzato per diventare bene di consumo; ed infine, ultimo ma non meno importante, svilisce e squalifica la funzione del farmacista, ultima pedina esecutiva di un sistema assurdo e paradossale.
Ecco, io partirei proprio da qui, da questa piccola e banale rivoluzione copernicana: una riforma completa e sostanziale del servizio farmaceutico. Non una di quelle riforme a cui siamo abituati, dove si cerca di salvare capra e cavoli, cercando sempre di accontentare un po' tutti, ma, in realtà, per arrivare a non modificare veramente niente: cambierei radicalmente le regole perché cambierei l'idea che ne sta alla base. E non è neppure un'idea particolarmente originale: in molti paesi stranieri le cose funzionano in questo modo già da molto tempo e non funzionano male.
Il medico visita il paziente, ipotizza una diagnosi e una prognosi, indica una terapia e la sua durata; il farmacista subentra e si impegna affinché quel dato paziente sia in grado di curarsi come il medico ha prescritto.
È così difficile immaginare un sistema come questo?
Ne avremo il coraggio e ne saremo capaci? Non ne ho idea, ma, secondo me, non abbiamo altra scelta.

sabato 18 giugno 2016

Domande

Abbiamo un mese e mezzo di ritardo nell'allestimento dei nuovi laboratori.
Dire che sono esasperata è un gentile eufemismo.
Lavoriamo ancora in mezzo al caos più sovrano  con spazi che si restringono ogni giorno di più e la beffa di vederne continuamente di ampi e comodi senza poterli utilizzare. Una tortura.
Nel progettarli abbiamo riflettuto e discusso a lungo sull'applicazione reale delle norme di sicurezza e questo ci ha indotto  a modificare e rivedere tante abitudini che non solo avevamo radicate, ma ritenevamo corrette e ragionevoli.
Come sempre si è rivelata l'esperienza più utile e feconda: guardare attentamente molto di quello che si da per scontato, analizzarlo e valutarlo consente di vedere tutto sotto una luce diversa.
Si scoprono un sacco di cose molto interessanti e poi, siccome da cosa nasce cosa, e siccome, certe volte, a pensare ci si prende anche gusto, abbiamo allargato l'oggetto della discussione.
Abbiamo cominciato a ragionare su di noi: chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando. Le solite domande esistenziali, insomma, quelle inutili, retoriche, banali domande che l'uomo si pone dalla notte dei tempi e alle quali non esiste una vera risposta.
A questo punto, probabilmente, molti si chiederanno quanto tempo abbiamo da perdere se passiamo le giornate ad arrovellarci su questioni di lana caprina. Me lo chiedo anch'io. Spesso.
Anzi, spesso mi domando perché io mi complico così tanto la vita (e la complico agli altri) spaccando capelli in mille parti, ponendo domande a destra e a manca, inquisendo, insistendo, tormentando chi mi capita a tiro su argomenti che, alla fine, non interessano veramente a nessuno.
Perché a me interessano. Perché non sono capace di darmi pace, farmi gli affari miei, prendere le cose come vengono. Ho un'insopprimibile vocazione alle minoranze e alle cause perse in partenza, alla battaglie inutili e alle guerre ideologiche.
Pazienza, nessuno è perfetto.
Per esempio, ci siamo chiesti: dove sta andando la farmacia italiana? Da nessuna parte, per definizione.
La vera domanda è: dove stanno andando i farmacisti? Chi sono, oggi? Che cosa vogliono o vorrebbero essere? Che cosa vogliamo diventare noi, qui, ora?
La farmacia è sempre la solita offerta di farmaci, prodotti, oggetti, servizi degli ultimi vent'anni: cambiano i colori, i prezzi, gli espositori, i marchi, ma è sempre rigorosamente la stessa.
E i farmacisti? Noi a che punto siamo? I miei collaboratori ed io siamo cambiati?
Quesito angosciante: ci è chiaro che dobbiamo cambiare? Perché credo che questo sia veramente il punto. Sentiamo la necessità, l'urgenza di cambiare noi stessi? O ci ostiniamo a pretendere  che cambi ciò che è inanimato nella speranza che ciò che è vitale rimanga sempre lo stesso?
Non possiamo sempre trincerarci dietro il sistema: l'università non prepara, il contratto non è stato rinnovato, i collaboratori costano troppo. Che senso ha investire in un servizio e non su coloro che tale servizio dovranno promuoverlo e gestirlo? Acquistare tutte le migliori novità e non dedicare un'ora del proprio tempo a conoscerli bene questi benedetti prodotti, a capire che cosa hanno di così speciale e perché dovrei consigliarli? A chiederci, seriamente, che cosa ci sto a fare qui, qual'è il mio compito, a che cosa servo?
Possibile che ancora non sia chiaro che la formula per la farmacia del futuro è di una semplicità e banalità sconcertante? Un progetto, un responsabile e una squadra.
Un progetto: non esiste una sola farmacia, ne esistono mille. Tutte valide, interessanti, potenzialmente vincenti. Se ruotano attorno ad un'idea, se si ispirano ad un modello, se hanno un obiettivo ben definito.
Un responsabile: nulla si persegue senza qualcuno che organizzi, coordini, supervisioni. Non basta dare ordini o indicazioni: si deve motivare, formare, affiancare, correggere. Spingere all'autonomia, ma essere sempre pronti ad intervenire per prendere una decisione, superare un intoppo, dribblare un ostacolo.
Una squadra: a dei collaboratori oggi si deve chiedere molto di più che non fare poche assenze o arrivare in orario. Abbiamo bisogno di persone competenti, motivate che apportino al lavoro un contributo molto più personale e fattivo. Ci servono dei professionisti.
Siamo tutti pronti per questo: non lo so. Per il momento, ho solo domande. Tante, troppe.
Le domande sono la mia specialità.

sabato 11 giugno 2016

Il lavoro nobilita l'uomo

Siamo stanche.
È iniziato per noi il periodo più faticoso dell'anno.
Dobbiamo conciliare una vita familiare che d'estate implode, con i figli a casa o sotto esame, e  il lavoro che esplode, i pazienti cronici che diventano ingovernabili, le nostre ferie (da adesso a metà settembre non saremo mai al completo), le ferie dei medici, le idee e i problemi più bizzarri dei clienti.
È stupido, me ne rendo conto, ma in certi momenti rimpiango le estati del passato, quando la stagionalità delle patologie governava il nostro lavoro e l'estate offriva qualche momento di tregua.
Da quando abbiamo deciso di occuparci di altro i nostri ritmi sono stati stravolti, e il resto del mondo non si è ancora adeguato alle nostre scelte. E questo è un problema.
Però qualche significativo progresso lo abbiamo fatto: per esempio, per la prima volta abbiamo pianificato le nostre ferie in modo egregio. Ci siamo sedute tutte attorno ad un tavolo, armate di penna e calendario, e abbiamo stabilito chi c'era, chi non ci sarebbe stato, chi avrebbe fatto che cosa, chi avrebbe sostituito chi.
Vado molto fiera di questo risultato: non chiudendo mai, siamo riuscite ad avere nel periodo estivo tre settimane di ferie ciascuna, facendo contemporaneamente in modo che non si creasse nessun disservizio. È stata anche una bellissima esperienza: tutte noi abbiamo potuto toccare con mano che per ottenere qualcosa bisogna sempre anche dare qualcos'altro in cambio e che i traguardi migliori si ottengono solo se c'è collaborazione reciproca. Mi ha riempito di orgoglio vedere come tutti fossero determinati a garantire la continuità e la qualità del lavoro.
Ero ancora in preda all'ebrezza del successo ottenuto, quando ho scoperto una cosa che mi ha fatto inorridire: ho  due collaboratrici che percepiscono un reddito al limite del bonus di ottanta euro. Se durante l'estate avessero fatto degli straordinari per sostituire i colleghi in ferie, avrebbero perso il bonus, calcolato sul reddito totale e non sullo stipendio base.
Quindi, riassumiamo: un dipendente è disposto a fare i salti mortali (e certe volte lo sono davvero) per garantire l'eccellenza del servizio  all'azienda per la quale lavora e ci rimette pure gli ottanta euro.
Personalmente ho un'altra idea di giustizia e meritocrazia.
Alle mie collaboratrici ripianerò io tutto quello che non dovessero ricevere. Ci mancherebbe: se permettessi  una tale sperequazione tutto quello che ho faticosamente costruito in questi anni crollerebbe miseramente senza alcuna possibilità di rinascita.
Ma il problema resta e, secondo me, è gravissimo. Perché è sostanziale, non accidentale.
Il lavoro si fonda sulle persone: se noi vogliamo un vero progresso non dobbiamo offrire a tutti un lavoro, ma dobbiamo fare in modo che le persone desiderino lavorare. Dobbiamo creare le condizioni  per le quali ciascuno di noi abbia voglia di dare il meglio di sé e di impegnarsi al massimo. Se il sistema penalizza per principio proprio coloro che danno di più, come possiamo sperare che i migliori  vogliano lavorare con noi?
Per me, tutto questo è inaccettabile. Perché, se fossi un dipendente, non riuscirei ad accettarlo.
Perché il mancato rinnovo del CCN o il contributo Enpaf penalizzano tutti allo stesso modo, mentre il mancato bonus danneggia solo  i migliori. Perché fa passare il principio  che non vale la pena di fare di più, che meno è meglio, che tanto se ti dai da fare ci rimetti e basta.
Ci affanniamo tanto a cercare le ricette per cambiare la farmacia, per rinnovarla, per traghettarla nella nuova era: io proverei a cominciare  da qui, da noi, non dai prodotti o dai servizi. Dai farmacisti

domenica 5 giugno 2016

Porte aperte e porte chiuse

Ho una porta di casa.
Detto così, sembra la cosa più stupida che si poteva dire. Tutte le case hanno una porta d'ingresso. Tutte. Tranne la mia.
Cioè, anche la mia aveva una porta, una cosetta leggera leggera, più una porta da interni che altro, tenuta quasi sempre aperta, perché i gatti, poverini, potessero girare liberamente. I gatti non amano le porte chiuse: anche d'inverno, anche quando sono accesi i termosifoni e sarebbe meglio evitare spifferi e perdite di calore. Tanto, una porta così è più una porta proforma che non una vera porta.
Adesso ho una vera porta, anzi un portoncino blindato, perché costava meno di una porta tutta in legno massiccio, come mi sarebbe piaciuta di più.
Non lo avrei mai detto, ma il cambiamento mi ha turbato molto di più di quanto avrei mai immaginato.
Questa è la casa della mia infanzia, quella in cui sono tornata, adulta, con famiglia al seguito.
Al piano terra, accanto alla farmacia, piccolissima, c'è l'appartamento nella quale hanno abitato per tutta la vita i miei genitori e dove sono cresciuta;  il luogo dove è vissuta ed è morta mia madre, la sua prigione, l'unico posto in cui sia mai voluta vivere. Dopo la morte di mio nonno, i miei genitori avrebbero potuto trasferirsi al primo piano, in uno spazio più grande e più comodo, ma mia madre non ha mai voluto. Questa casa non le piaceva, avrebbe dovuto fare due rampe di scale per raggiungerla, le sembrava lontanissima, su un altro pianeta.
Mia madre odiava la farmacia: figlia primogenita, le fu imposto di subentrare alla madre nella titolarità, quando quest'ultima si ammalò. Della farmacia non le piaceva assolutamente niente: di carattere riservato, introverso, portata pochissimo al rapporto con i clienti, poco espansiva, si annoiava a morte. Ha sempre fatto il suo dovere con dignità e scrupolo, ma senza alcuna gioia né soddisfazione.
Come tutto quello che ci viene imposto e viene vissuto sorretto solo dal senso del dovere, ne fece un onere anche maggiore di quanto non fosse necessario. Non separò mai la sua e la nostra vita privata dalla farmacia che incombeva e permeava ogni nostro tempo o attività, contemporaneamente scusa giustificazione alibi e rifugio per un senso profondo di rinuncia e condanna.
 Professione limitata al minimo sindacale, considerata comunque rigorosamente subordinata alla vendita e al guadagno, che doveva almeno compensare il sacrificio percepito come enorme, non sembrava necessario impegnarsi in altro se non in  una proficua gestione.
Io non ho mai avuto un carattere accomodante.
Non sarei mai riuscita a vivere e lavorare in questo modo.
Ho fatto altre scelte e seguito altre strade. Alla farmacia sono tornata per caso, per una serie di coincidenze difficilmente prevedibili.
Non è stato un colpo di fulmine.
Ho fatto fatica a staccarmi dal mio precedente lavoro, che mi piaceva moltissimo, da quella vita che mi ero costruita da sola e che mi era così congeniale.
Poi, piano piano, ho capito. Ogni lavoro va costruito.
Giorno dopo giorno, puoi plasmare quello che fai su di te, sulle tue attitudini e sulle tue capacità. Non c'è nulla di quello che ho studiato e ho fatto in passato che non mi serva oggi, in questa vita che può apparire banale, ma che offre enormi possibilità.
È vero, io non sono il mio lavoro. Sono tutti i miei lavori. Quelli che ho fatto e quelli che farò.
Sono una farmacista e sono molto felice di esserlo.
La mia casa oggi  ha anche una porta.  Per scegliere di far entrare il lavoro nella mia vita.