domenica 31 luglio 2016

Mission impossible

Finalmente la signora Anna è stata dimessa dall'ospedale ed è tornata a casa.
Per qualche giorno è ospite della figlia: non è ancora sufficientemente autonoma da tornare a vivere da sola.
Sistemata la convalescente  comodamente in poltrona, arriva in farmacia una delegazione agguerrita  di familiari con il foglio di dimissione ospedaliera.
"Abbiamo portato a casa la mamma proprio adesso: questa è la terapia. Il suo medico è in ferie, non riusciamo a trovare il sostituto e noi non ci capiamo niente. Le preparate voi i farmaci come al solito?" Rovesciano sul bancone il sacchetto dei medicinali avanzati prima del ricovero: sventrato, tutte le confezioni aperte e mescolate, blister foglietti illustrativi e scatole in un'unica massa informe.
Mentre cerchiamo di capire che cosa dobbiamo fare, ognuno dice la sua, voci e opinioni si accavallano, il caos regna sovrano.
"Ma come scrivono 'sti medici, non si capisce una parola! Terapia anti ipertensione invariata: questa scritta non c'è su nessuna scatoletta. Ce ne anticipa una confezione che poi le portiamo la ricetta?"
Intervengo di autorità perché vedo la collega del tutto smarrita che tenta  di inserirsi con difficoltà  fra  toni che stanno diventando sempre più concitati.
Recupero il foglio di lavorazione dei blisteroni fatti nel passato e con calma faccio ordine (la mia grande specialità nonché il mio tratto distintivo), spiego  il significato delle singole parole e confronto  le due terapie.
"Ve lo avevo detto: non so come faccia (?!?), ma la dottoressa Bianca capisce sempre tutto". Bene, non ho ancora perso il mio tocco: sorvolo sul fatto che negli ultimi venticinque anni ho sfogliato distrattamente qualche libro sull'argomento e porto a casa il risultato. Si sono calmati e mi stanno ascoltando: vediamo di capire che cosa dobbiamo fare.
"Allora, tutto a posto: ci pensa lei. Passiamo questa sera a ritirare i blisteroni".
Ecco, proprio tutto a posto no: la paziente prima di andare in ospedale prendeva un farmaco per il controllo del dolore in un dosaggio peraltro piuttosto elevato, farmaco mai citato né  nella relazione dei medici che nelle dimissioni. E adesso cosa faccio? Non ho alcuna competenza per prendere una decisione del genere, interrogare i parenti non mi sembra il caso, decido di attaccarmi al telefono.
Primo approccio, il medico di base. Molto gentile, come sempre, mi risponde costernato che lui è solo il sostituto, non conosce bene né la malata né la situazione: per fare le cose per bene bisognerebbe sentire l'ospedale.
E sia, affrontiamo l'ospedale. Mi bevo una camomilla tripla, impugno il telefono come un gladiatore la spada, calo l'elmetto, preparo lo scudo, prendo un respiro profondo e mi accingo all'impresa.
Parlo successivamente con portinaio, infermiera, segretaria, infermiera, capo sala, specializzando, medico, capo sala. I toni passano da gentili, irritati, nervosi, dispiaciuti, incerti, arroganti, decisamente maleducati.
L'effetto della tripla camomilla è ormai svanito, mentre sto valutando se prendere una benzodiazepina o un antidepressivo, mi passano l'ennesimo medico. Ha una voce stanca, stufa, che fa il paio con la mia: ripeto per l'ennesima volta la stessa domanda, ormai ho assunto un tono lamentoso decisamente poco piacevole.
"Ma lei chi è? Una farmacista? Perché vuole sapere quali farmaci sono stati prescritti alla signora? Cosa c'entra lei?"
Ho esaurito le forze, replico fiaccamente che la mia farmacia si occupa di aderenza alla terapia riempiendo dei contenitori monouso per facilitare ai pazienti l'assunzione dei medicinali. Che l'informazione mi serve perché devo sapere che cosa metterci dentro, intendo  in questi famosi blisteroni, e me lo deve dire un medico perché lo scopo del lavoro è far rispettare alle persone le indicazioni dei medici, lasciando da parte le libere interpretazioni.
Dico tutto questo in un fiato, a bassa voce, stufa marcia di dovermi giustificare continuamente.
"Ma allora esiste veramente? Cioè, voglio dire, lei è vera, in carne e ossa, non è una macchina. Sa, in ospedale si favoleggia sul suo lavoro: molti sostengono che venga fatto da una macchina. Cioè, si, no, voglio dire, ci sono dei farmacisti veri, quelli con il camice bianco e tutto il resto, dietro a questa cosa?in America, mi hanno detto che ci sono delle macchine speciali che fanno tutto loro...
Perché, vede, i farmacisti, quelli veri, in genere non fanno queste cose......"
"E cosa farebbero i farmacisti veri?"  Il mio tono è cambiato,  adesso comincia a diventare pericolosamente lento e pacato.
Scoppia a ridere. "Ho detto una sciocchezza, vero? Non si inalberi: se le offro un caffè, mi perdona? Lei dev'essere proprio un bel tipo: ma chi glielo fa fare? Sa, mi piacerebbe proprio saperlo."
Mi metto a ridere anch'io: già, chi me lo fa fare?
Quando lo scoprirò, andremo a prenderci un caffè insieme. Promesso



domenica 24 luglio 2016

Incidente estivo

Si ferma davanti all'edificio l'enorme motrice bianca di un camion a rimorchio.
La notiamo perché sembra veramente molto grande nel piazzale che, a dire il vero, è piuttosto piccolo.
Scendono quattro persone  e in tre entrano in farmacia che in quel momento è piena di gente. Ci vuole poco: è talmente angusta che pochi  clienti sembrano una folla.
Comunque,  si mettono in fila e ciascuno  di loro si avvicina ad una delle tre postazioni dove stiamo lavorando.
Quello che parla con me mi mostra un cellulare dove è aperta una chat con dialogo  in arabo e foto di farmaci: alcuni li riconosco, hanno la confezione simile alle nostre. Richiedono tutti ricetta medica, in certi casi addirittura ricetta limitativa compilata da uno medico specialista:  non glieli posso proprio vendere. Mi indica altri nomi, ma questi non li conosco, non ho idea a cosa si riferiscano, non sono specialità italiane. Insiste, ma per lui non posso fare assolutamente  niente, mi dispiace.
Alla fine mi mostra le immagini di uno shampoo per bambini, in confezioni in lingue diverse  e mi chiede se almeno questo lo può avere. Non c'è l'ho, ma lo posso procurare per il mattino dopo.
Per lui va bene, passerà a ritirarlo l'indomani.
Mentre ciascuna di noi è impegnata in colloqui simili, la collega che occupa la postazione all'estremo opposto del bancone si accorge che il quarto individuo sta facendo diverse fotografie alla facciata della casa. Lo noto anch'io con la coda dell'occhio, ma sono impegnata ad arginare il mio cliente che dalla posizione frontale  mi è venuto di fianco e cerca di avvicinarsi alla stanza sul retro, e non riesco a vedere più di tanto.
È evidente che tutti e tre cercano di attardarsi e capire com'è disposta la farmacia (non che sia così difficile date le dimensioni complessive): continua ad entrare gente e data l'esiguità degli spazi devono rassegnarsi ad uscire.
Risalgono tutti sulla motrice e se ne vanno.
Decidiamo di avvertire i carabinieri: dopo un breve conciliabolo siamo giunte alla conclusione che avevano un atteggiamento ambiguo e sospetto. Mi preparo un discorso infarcito di scuse perché detesto fare la parte della donnetta isterica che cerca di attrarre l'attenzione a tutti i costi.
Con mia grande meraviglia il carabiniere al telefono mi prende molto sul serio e mi invita a inviargli subito per e-mail gli spezzoni dei video ripresi dalle telecamere. Comincio ad essere spaventata.
Contatto i due servizi di vigilanza, come mi è stato suggerito, e la preoccupazione aumenta: pare che siano prese di mira tutte quelle strutture che hanno attrezzature da laboratorio, sono merce preziosa, non si possono comprare facilmente. Ci raccomandano di fare molta attenzione, di fare in modo che ci sia sempre qualcuno nell'edificio, di segnalare subito qualunque elemento sospetto.
Sono tutti molto solleciti, molto zelanti, ma a me manca l'aria. Mi sento soffocare.
Non sono arrabbiata, né particolarmente allarmata, forse l'aggettivo che riassume meglio il mio stato d'animo è sgomenta: non volevo mettere le telecamere, non volevo dover controllare chi si avvicina o non si avvicina a casa mia o alla farmacia, non mi piace accogliere la gente con sospetto, non mi piace sentirmi assediata e spiata.
La cosa che mi disturba di più, però, è un'altra: guardiamo con sospetto tutti gli stranieri che non conosciamo, li avviciniamo con timore, osserviamo i loro gesti e i loro comportamenti più per capire se sono potenzialmente pericolosi che per cercare di aiutarli, come se il solo fatto di non parlare la stessa lingua costituisse già di per sé una minaccia.
Per fortuna dimenticheremo presto questo stupido episodio, archiviandolo come il frutto di paranoie estive, con il caldo che fa evaporare pathos e ansie. Rimane solo un certo sapore amaro, una traccia appiccicosa di sottile disagio come l'afa che si insinua un po' dovunque.

domenica 17 luglio 2016

Parole parole parole

Quest'estate abbiamo avuto ben due stagisti, due liceali che dovevano fare un'esperienza lavorativa durante l'estate.
Non nascondo che ero molto perplessa per questa iniziativa, sia dal punto di vista concettuale che organizzativo: che cosa gli facciamo fare a questi ragazzi? A che cosa può servire ad un adolescente che deve ancora finire la scuola superiore frequentare un luogo di lavoro così apparentemente poco attraente come una farmacia? Che senso ha un'iniziativa del genere?
È evidente che  scegliere di venire da noi è dipeso soprattutto dalla comodità e dalla vicinanza a casa: faccio fatica ad immaginare un giovane ansioso di sperimentare l'ebrezza di smistare pacchi o controllare lunghi elenchi di medicinali. Oltre a tutto, non abbiamo esattamente l'immagine di gran professionisti: come ho avuto modo di appurare, non avevano proprio idea di quanto frenetico, complesso e impegnativo fosse il nostro lavoro. Non pensavano che invece ci fosse un problema al minuto, una difficoltà dietro l'altra, intoppi e ostacoli a getto continuo.
D'altra parte, è difficile per il cliente rendersi conto che il gesto con cui consegnamo un farmaco è il frutto di una lunga catena di eventi che inizia col decifrare il bisogno di una  persona e termina con il proporre una soluzione: richiede  intuito, conoscenza, ricerca; esige organizzazione, fantasia, pazienza, flessibilità.
Mi sarebbe sembrato un gran bel risultato se questi ragazzi avessero concluso lo stage anche solo con questo pensiero: fare il farmacista non è facile e, se lo fai bene, fai un servizio importantissimo per l'intera società. Mi sarei accontentata che avessero iniziato a vederci con occhi diversi e, chissà, fra le varie opzioni universitarie cominciassero a includere anche questa. Il mondo ha bisogno di buoni farmacisti, molto di più di quanto non creda.
Poi, però, mi sono accorta che, forse fare un'esperienza del genere poteva offrire anche un'altra lezione basilare: l'importanza di una comunicazione efficace nell'ambiente di lavoro, sia fra colleghi che con il pubblico.
Ricordo mio padre che rimproverava a  mia madre di parlare come se alzasse l'audio saltuariamente lungo il flusso dei suoi pensieri: si lamentava che mancavano sempre soggetti e premesse e spesso anche alcune parti essenziali dei vari ragionamenti. Lei rispondeva serafica che non aveva nessuna necessità di perdere tempo a spiegare tutto per bene: si conoscevano da talmente tanto tempo che  lui era perfettamente in grado di integrare le parti mancanti del dialogo.
Mia figlia, che  ha da sempre con le parole un rapporto molto dinamico (le modifica, le inventa, le addomestica e le piega alle sue necessità) fino a due anni non ha parlato: consultato, preoccupati, uno specialista, ci spiegò che non aveva alcun deficit particolare, aveva semplicemente un fratello maggiore che rendeva inutile ogni sforzo in tal senso. Anche adesso lui è il suo traduttore ufficiale, quello che per primo intuisce il significato recondito di ogni sua espressione.
Purtroppo, però, quando si lavora, questa attitudine ad un lessico personale e familiare, questa incapacità di produrre una comunicazione efficace ed esaustiva (difficoltà diffusissima e ubiquitaria) diviene una fonte inesauribile di equivoci e disguidi, di pensavo, avevo capito, credevo, mi sembrava, che possono generare infiniti problemi, di inottemperanze, di malintesi.
Genitori ed insegnanti in genere lottano disperatamente per indurre i giovani ad adottare un linguaggio adeguato, ma rimane quasi sempre teoria, il capriccio di vecchi pignoli che si inventano continui tormenti, inutili pignolerie di un tempo passato e ormai obsoleto. Fra ragazzi basta una sigla, un acronimo, un accenno, e tutto sembra così chiaro ed evidente. Se l'altro non capisce, pazienza, semplicemente non si è ben integrato nel gruppo.
Ma quando lavori, quando il tuo gruppo è costituito da persone che hanno bisogno di te per rispettare un impegno, le parole servono tutte, così come servono le pause, le virgole, i toni, serve sapere quando si può scherzare e quando essere seri, quando sorvolare e quando ripetere. Bisogna sapere ascoltare, ma anche parlare e spiegarsi.


domenica 10 luglio 2016

Buon lavoro

È acclarato: l'inizio e la fine della settimana sono in assoluto i momenti peggiori nel lavoro.
Senza scomodare Leopardi o i grandi pensatori, si arriva al venerdì pomeriggio e si comincia a sentire il profumo del fine settimana. E si comincia ad illudersi. Si comincia a vagheggiare di un meritato riposo, di una pausa agognata e apparentemente così vicina che la puoi quasi toccare.
Uno dei propositi che immancabilmente faccio ogni anno è di chiudere il laboratorio il venerdì sera: ci fossi mai riuscita. Quando nascerò la prossima volta, sarò fermissima nello stabilire orari e disponibilità: in questa vita , però, non c'è proprio speranza.
 Sistematicamente, ogni benedetta settimana, ho due o tre clienti che all'ultimo minuto si rendono conto che non arriveranno a lunedì con i farmaci che devono assumere o che devono iniziare immediatamente una nuova terapia o che non avranno altro momento per ritirarli se non sabato mattina. Mi guardano speranzosi, io provo a negarmi; si appellano al mio buon cuore, e io cerco di resistere; mi pregano insidiosi, e capitolo miseramente. Forza di volontà sotto zero. Determinazione, questa sconosciuta.
Tanto tutti hanno già capito che non sono capace di rifiutarmi: il mio ego fragilissimo si nutre avidamente e masochisticamente dell'illusione di essere indispensabile.
Nella prossima vita, lo giuro, sarà tutto diverso.
Già, la prossima: perché in questa non sono stata molto brava e ho sbagliato un sacco di cose.Ma ormai è andata così: dubito fortemente di riuscire a cambiare veramente  qualcosa.
Al venerdì impegnativo, ma ancora ricco di speranze, seguono,  in genere, un sabato pomeriggio e una domenica schizofreniche in cui cerco di recuperare e mettermi in pari con tutto quello che ho tralasciato durante la settimana, sommato a tutti quegli impegni che mi sono accollata senza che nessuno me lo imponesse,  per approdare al lunedì stremata insoddisfatta angosciata frustrata.
E sì che basterebbe poco, me ne rendo conto, per imprimere una svolta alle mie giornate: il problema è che il vuoto mi atterrisce, l'idea di avere davanti del tempo non stipato di obblighi mi lascia smarrita e confusa.
Ho un amico che, ad intervalli regolari, in particolare quando lo tormento senza pietà con un milione di quesiti e di progetti, invoca una tregua proclamando ufficialmente che appena può vende tutto e abbandona ogni attività: a parte l'errore tattico (se non ha sufficienti stimoli mi sento in dovere di dargliene di nuovi  e moltiplico gli sforzi per riempirgli l'esistenza: certe volte arriva a far pena perfino a me), è una posizione che mi sconcerta perché non riesco proprio a concepire un'idea simile. E dopo? Come si fa ad alzarsi al mattino con l'idea di avere davanti a sè delle ore intonse da riempire, senza uno scopo preciso, un'urgenza, una montagna di problemi che incalzano per essere risolti? Potrei deprimermi a morte, inaridirmi come la surfinia che mi sono dimenticata di innaffiare, spegnermi come una candela che ha esaurito il suo stoppino.
"Non c'è pericolo. Che Dio abbia pietà di noi il giorno che andrai in pensione: non voglio immaginare in quali folli progetti ci trascinerai tutti, con che ritmo incalzante  ci investirai di idee travolgenti, quali salti mortali dovremo fare per stare dietro a te e ai tuoi pensieri." Mio figlio, quello, per intenderci, che ha fatto del sarcasmo uno stile di vita, mi guarda sornione, in bilico fra il lusingato e  il preoccupato.
Non ho mai del tutto capito i sentimenti dei miei figli nei miei confronti: credo che non siano chiarissimi neppure per loro. Mi sembra che oscillino fra orgoglio e perplessità per una mamma non proprio tradizionale. Non mi cambierebbero con una mamma "per bene", ma non vado neppure esibita liberamente.
"Non voglio che parli con i miei amici perché fai loro domande troppo difficili." Quali sono le domande difficili? Ci sono domande inopportune, imbarazzanti, indelicate, ma difficili? Che cosa significa difficili? "Ecco, appunto".
I dialoghi surreali a casa nostra si sprecano. Come le discussioni all'ultimo sangue su argomenti del tutto peregrini come la preminenza dell'approccio induttivo su quello deduttivo nel metodo scientifico o le controversie su un oscuro passaggio della Divina Commedia,  con litigi a coltello come se ne andasse della nostra stessa vita e dell'intero destino dell'umanità. Nel gioco delle parti e nella foga dei ragionamenti, dimentichiamo completamente le rispettive posizioni iniziali, il tempo che scorre, i compiti da portare a termine.
Una nuova settimana sta per iniziare. Buon lavoro.

domenica 3 luglio 2016

L'inizio della fine

La prima stanza, quella destinata ad essere un ufficio, è completata. Mancano ancora dei dettagli come i battiscopa e le cornici delle porte, ma possiamo dire che è praticamente finita.
Un miracolo. Preceduto ed accompagnato da tutta una serie di colpi di scena che hanno movimentato la settimana: mettiamola in questo modo, se mai temessimo di annoiarci o scadere in una banale routine, non mancano gli incidenti e gli intoppi a rassicurarci e a garantirci giornate vivaci ed estenuanti.
In origine era una stanza molto grande che col tempo abbiamo invaso completamente con le nostre carte, i documenti, le stampanti che non trovavano pace da nessuna parte. Quando abbiamo deciso di destinarne metà ai laboratori non mi sono resa conto di quanto sarebbe diventata piccola: l'unica cosa di cui ero certa era che volevo divisori di vetro trasparente per non sentirmi in prigione sia da una parte che dall'altra. Subito non sono stata accontentata: la prima versione aveva tutte pareti cieche e l'effetto finale era quello di una tomba egizia con il piccolo corridoio finale che poteva essere benissimo l'ultima dimora del sarcofago del faraone. Un disastro.
A questo punto ho commesso l'errore più grosso: invece di arrabbiarmi e prendermela con tutti avrei dovuto parlarne con calma con l'architetto che ha progettato il lavoro, spiegare meglio quello che volevo e lasciare che fosse lui a tradurre in pratica i miei desideri. In realtà, io non sapevo davvero quello che volevo: avevo un'idea generica di quello che mi sarebbe piaciuto, ma non ero in grado né di sapere se avrei potuto realizzarlo né di che cosa avevo veramente bisogno.
La stessa cosa accade mille volte al giorno ai nostri clienti: entrano in farmacia e chiedono un rimedio o un farmaco. Ma molto raramente sanno di che cosa hanno realmente necessità: non hanno alcuna competenza specifica per questo e, inoltre, inevitabilmente,  hanno una percezione del tutto soggettiva dei sintomi.
Il farmacista è il primo interprete, il primo traduttore, dei loro problemi: la sua prima, fondamentale, funzione è di capire se la situazione richiede l'intervento di un medico e con quale urgenza o se è possibile ricorrere ad un semplice rimedio per trovare una soluzione. La sua vera abilità è la capacità di intuire quando un sintomo rivela un disturbo banale o nasconde una patologia molto più seria.
Una stupida tossetta può dipendere dall'uso disinvolto dell'aria condizionata fino a denunciare una sofferenza cardiaca: per vendere uno sciroppetto qualunque (adulto o bambino? tosse secca o grassa?)  sono sufficienti un robot e la pubblicità. Neppure per mandare indistintamente tutti dal medico o dallo specialista serve un farmacista: ansiosi e ipocondriaci sono  bravissimi ad intasare i Pronto Soccorso.
Guardare una macchia o una presunta micosi di un' unghia non è certo obbligatorio: rimane un mistero come si possa dare un consiglio qualunque solo con informazioni riportate. Internet è pieno di nozioni generiche e la sfera di cristallo ogni tanto non funziona: anche in questo caso che cosa diamo di più come professionisti?
Ci possiamo sbagliare? Certamente, mille volte al giorno. Ma se il consiglio riguarda solo farmaci di libera vendita, siamo ampiamente legittimati: da nessuno è possibile pretendere la perfezione, siamo ancora ampiamente nella nostra sfera di competenza e l'errore è ammesso.
Quando vendiamo un farmaco con obbligo di ricetta senza la giusta motivazione sconfiniamo nell'abuso  di professione medica, non quando facciamo diagnosi in una patologia minore e suggeriamo un rimedio che a noi appare adeguato: mi sfugge completamente perché non solo ci preoccupiamo del contrario, ma condanniamo scandalizzati se un collega verifica la presenza di parassiti e consiglia la profilassi corretta. Oltretutto, la maggior parte dei presidi per pediculosi non sono neppure farmaci, ma gli antibiotici e gli antidolorifici ad alto dosaggio sì: perché non sembra molto più grave arrogarsi il diritto di dispensarli liberamente a coloro che lamentano mal di gola o cistite? Non è questo il nostro lavoro.
La laurea e l'abilitazione sono il primo gradino, indispensabile, per svolgere una professione: da qui inizia il percorso più duro e accidentato per imparare a diventare dei professionisti. L'università ha dato le basi ed un metodo di apprendimento:  è dopo che si deve cominciare  a studiare e ad approfondire le conoscenze per farle uscire dalla teoria e immetterle nella realtà. E se all'università una cosa non me l'hanno insegnata, non commetto un abuso se apro un nuovo libro e la studio.