lunedì 22 agosto 2016

Cambiano i tempi (parte prima)

Il primo è stato un signore anziano.
Lo conosco da sempre, da quando ero bambina e passavo i pomeriggi in farmacia con mia madre. Avevo anche un lavoro ed ero regolarmente pagata: mettevo i timbri alle ricette, tre per ricetta (allora erano grandi, azzurre, di un tipo di carta porosa, con in basso tre sezioni che dovevano essere regolarmente timbrate tutte e tre), una lira  a timbro. Sempre una lira costavano anche certe caramelle piccoline di liquirizia, moretti si chiamavano, per cui  tanti timbri tante caramelle.
È sempre stato un ormone grande e grosso, un po' burbero nei modi, ma non sgradevole. La voce profonda, i gesti essenziali di chi è abituato alla fatica fisica e ha imparato ad economizzare le forze.
Da mesi è tormentato da un fastidioso prurito su tutto il corpo che diversi medici non sono riusciti a controllare. Il prurito è un gran brutto sintomo: non mi è sembrato subito strano che ripetesse le stesse cose più e più volte. Mi sono impressionata molto di più quando a cominciato ad agitarsi ed innervosirsi perché non trovava  le banconote giuste nel portafoglio mentre  le aveva davanti.
Poi è stata la volta di una signora, anche questa una vecchissima conoscenza.
La prima volta è entrata lamentandosi che tre mesi prima, aprendo una confezione nuova di un farmaco che usa abitualmente, mancava una compressa. Ora, cercare di capire realmente che cosa è successo in un caso del genere è veramente molto difficile anche quando è appena successo (il blister era intatto, ma vuoto? Poteva trattarsi di una confezione già aperta precedentemente e magari dimenticata? Potrebbe averla aperta il marito? O la figlia?). Dopo tre mesi è praticamente impossibile. Come si fa a ricostruire i fatti? E la confezione, possiamo vederla?
L'ho buttata perché mancava una compressa.
La scatola era danneggiata?
Mancava una compressa.
Una sola?
Non lo so, l'ho buttata perché mancava una compressa.
Certe volte i dialoghi diventano molto difficili, anche se mantengono un apparente filo logico, anche se ci sono delle incongruenze. Sul momento sembrano banali intoppi di comunicazione, come se due persone parlassero nella stessa lingua, ma in tempi e modi diversi. Le parole sono le stesse, ma non i significati. Tantomeno le connessioni logiche e temporali.
Le volte successive le cose hanno preso una piega surreale. Stia attenta, mi dia tutte le mie pastiglie, altrimenti mia figlia si arrabbia! Mi dice che spendo troppi soldi in medicine, allora io non le prendo e le metto via, le nascondo così non le trova nessuno. Non so neanch'io dove sono, ma tranquilla, poi le ricompro e me le conservo così se mi servono le posso sempre andare a cercare.
La voce è leggermente affrettata, la mimica un po' rigida, tutto suggerisce un'impressione di straniamento pur conservando un'apparenza normale, conosciuta, abituale.
Cerchiamo di dominare lo smarrimento ripetendo le stesse cose, quasi con le stesse parole, in toni sempre più alti, come se gridando potessimo capirci di più. Invece lei si spaventa e allora le parliamo dei bellissimi fiori che ha sul balcone, delle surfinie  che quest'anno sono stupende e, piano piano, sembra si stia rasserenando.
E poi c'é la coppia affiatata, sono venuti sempre insieme, da quando lui è andato in pensione danno una mano alla figlia con i due nipotini: sorridenti, in genere con grande orgoglio ci raccontano  subito l'ultima prodezza dei bambini. È da un po' che non li vedo: vuol dire che i piccoli sono stati bene e non hanno avuto bisogno di noi.
Oggi invece il marito è serio, si guarda in giro con aria svagata mentre la moglie non lo perde di vista un'istante. È tesa, stanca, avvilita: mi racconta il loro dramma con voce incolore, cercando con gli occhi il marito come se sperasse che lui, come al solito, possa intervenire invitandola a non fare la solita nonna che parla solo dei nipoti con tutti quelli che incontra.  Lo ha fatto decine di volte e ne abbiamo sempre riso insieme. Oggi no.
Oggi la signora con voce spenta ci dice che adesso ha un altro bambino di cui occuparsi, un bambino grande e grosso, e non sa per quanto tempo ancora riuscirà a farlo. È faticoso. È troppo doloroso e lei comincia a non farcela più.
Cerco qualcosa da dire, ma non mi viene in mente nulla di sensato. Riesco solo a stringerle una mano sperando che il silenzio le dica quello che le parole non possono esprimere.
(Continua...)




lunedì 15 agosto 2016

Mille di questi turni

Il turno mi mette sempre in crisi.
È vero che non è più come una volta quando durava sette giorni e sette notti, ma mi mette in difficoltà lo stesso.
Intanto, sono solo due notti, ma molto più impegnative. Ci sono molte più chiamate, soprattutto dopo la mezzanotte. Vuoi per l'età, vuoi per la paura di non sentire il campanello, faccio una gran fatica a riaddormentarmi, così finisco per dormire pochissimo.
Il giorno, poi, sarebbe bellissimo se si potesse non andare a lavorare: tutti i mesi mi riprometto di non presentarmi neppure in farmacia e tutti i mesi, sistematicamente, ho talmente tanti impegni che finisco per essere occupata tutta la giornata.
Sono le ventidue, fra un cliente e l'altro, seduta al tavolo della cucina, cerco di portare avanti almeno qualcuno dei mille lavori, noiosissimi, che non trovo mai il tempo di fare. Se non approfitto di queste serate infinite in cui devo stare in piedi per forza, la maggior parte delle incombenze burocratiche rimarrebbe inevasa. Il fatto che in tutto ci sia del buono non mi consola per niente. Anzi, se possibile, mi innervosisce ancora di più.
Mi sto perdendo in un mare di carte, l'orecchio teso al campanello, incerta se preferire una chiamata urgente e abbandonare la nave in tempesta o qualche momento di tregua per tentare di ritrovare una rotta qualsiasi,  quando sento un gatto protestare in modo vibrato.
Il suo timbro  è inconfondibile: alzo la testa e me lo trovo davanti, sporco, concitato, esagitato, più brontolone del solito. Manca da casa da quasi un mese, ormai ci eravamo convinti che avesse fatto una brutta fine sotto una macchina. Invece aveva ragione la tesi complottista: è stato rapito e tenuto prigioniero  da un'altra famiglia perché non appare né denutrito né ferito.
E' proprio lui, Molotov detto il Nano, fulvo, bellissimo: ci è comparso dal nulla in giardino una sera d'estate, piccolissimo, nascosto in mezzo alla siepe, deciso a farsi adottare a tutti i costi miagolando senza pace perché capissimo subito di che pasta era fatto. 
Anche adesso non ci sono dubbi sul fatto che sia proprio lui: con dovizia di particolari, il tono perentorio di chi sa di aver ragione, ci spiega che finalmente è riuscito a tornare a casa, ma ha dovuto fare tutto da solo, perché, si sa, come umani siamo piuttosto imbranati e poco fattivi. Non potevamo cercarlo meglio? Si abbandona così, al suo destino, un povero gatto che tanto ha fatto per il benessere della famiglia? E tutte le volte che con la scusa di accettare graziosamente una carezza o un grattino ho offerto conforto a qualche umano depresso? E gli allegri buongiorno alle sei del mattino per una colazione di gruppo, ne vogliamo parlare? Mi avete sostituito con una sveglia? Vi sembra la stessa cosa? Umani, non c'è altro da dire...
Mio figlio ed io siamo emozionati: cerchiamo di capire se sta bene, se è ferito, se ha fame, come mai è così sporco... Mandiamo messaggi a tutti, al resto della famiglia e a Elena, la balia dei gatti, a tutti gli amici e alla maggior parte dei conoscenti, e pazienza se è quasi la mezza, in ogni messaggio una foto, perché sia a tutti ben chiaro che è proprio lui, il Nano è vivo e sta bene, il Nano è tornato.
Alle due, fra messaggi, clienti, carezze, scatolette di tonno, sono stremata: provo a sdraiarmi sul letto e subito Pallo, la gattona matriarca padrona del mio letto e tutrice della mia persona, mette bene in chiaro che neppure il figliol prodigo, neppure in questo felice frangente può derogare dalle regole e stendersi vicino a noi.  Se non ci fosse lei a riportare le cose in ordine, anche qui come umana valgo ben poco...
Ogni venti minuti Molotov mi ricorda con voce stentorea che finalmente è tornato, Pallo lo rimbrotta intimandogli di non avvicinarsi al suo regno, smettetela e fatemi alzare perché il campanello ha suonato. Alle quattro decido che forse il divano potrebbe offrire un compromesso accettabile. Pallo mi si accomoda in braccio, il Nano e il Nanetto ai miei piedi protestano all'unisono appena mi muovo: ragazzi, sono di turno, portate pazienza, ma devo rispondere.
 Questa notte sono felice, neppure le chiamate mi pesano, non mi importa se non sono né urgenti né così necessarie. Vorrei raccontare a chiunque che il mio gatto è di nuovo a casa con noi.
Forse non serve: sono le sei, è ora di colazione, umana, veloce, sbrigati in fretta. Qui c'è gente che ha fame e vorrebbe mangiare


domenica 7 agosto 2016

Stella cadente d'agosto

Il bimbo entra tenuto per mano dalla mamma.
È piccolino, non può avere più di quattro o cinque anni.
Mentre la mamma mi porge la ricetta e mi spiega che cosa le ha detto il medico e di che cosa ha bisogno, si nasconde dietro la gonna di lei.
Il figlio ha un grave problema agli occhi e uno specialista gli ha prescritto un farmaco molto particolare. Sono arrivati da me perché hanno bisogno di un collirio ad una diluizione che non esiste già pronta in commerci  e non ci sono molte farmacie che possono allestire un farmaco di questo genere.
Leggo attentamente la prescrizione e comincio a preoccuparmi: non ho mai fatto niente di simile  e non so se ne sono capace. Evidentemente dal mio viso traspare l'inquietudine che mi sta pervadendo: la mamma mi spiega che l'oculista l'ha indirizzata ad una farmacia di Milano, ma per lei sarebbe una soluzione estremamente scomoda, tanto più che ne avrebbe bisogno di un flacone al mese per un anno.
Mentre parliamo il bimbo si stringe a lei sempre di più, finché lo prende in braccio e lui affonda il visetto nella sua spalla: è spaventato, intimorito dal sospetto di dover subire chissà quali torture. Cerco di rassicurarlo offrendogli un lecca lecca, ma non solleva neppure la testa.
Confesso senza remore i miei dubbi e mi riservo due giorni per decidere cosa sono in grado di fare.
La prima mezza giornata la passo a cercare di dominare il panico: continuo a rivedere il bambino e la sua mamma e mi sento soffocare dall'ansia. Mi tornano in mente i miei figli da piccoli, il terrore con il quale affrontavo ogni loro piccolo disturbo e mi chiedo come avrei reagito se uno di loro avesse avuto un problema veramente serio. Mi ripeto che non è questo il modo di affrontare il lavoro, che devo essere obiettiva e razionale, ma non c'è niente da fare, ormai sono emotivamente coinvolta: li devo aiutare a tutti i costi, non ho idea come, ma devo trovare una soluzione.
Mi attacco al computer e nel giro di un'ora so tutto quello che c'è da sapere sul principio attivo: solubilità, stabilità, interazioni. La concentrazione richiesta è veramente molto bassa per cui mi avventuro in tutta una serie di calcoli per garantire il risultato desiderato.
Adesso siamo alla forma farmaceutica: devo preparare un collirio per un bambino e lo deve usare per molto tempo, non deve bruciare e deve procurargli il minor fastidio possibile. Confronto i vari prodotti in commercio e cerco di capire qual'è il più confortevole.
Mi rimane da conoscere un ultimo dato, il razionale della terapia. Voglio capire se e come funziona, che cosa mi devo aspettare, che margine di errore ho. Consulto tutte le banche dati che ho a disposizione e finalmente trovo il lavoro che mi interessa: da un punto di vista teorico è molto sensata, ma è ancora in fase sperimentale, tuttavia i risultati finora ottenuti sono molto incoraggianti e tutto lascia sperare che il mio bambino (ormai è diventato un po' anche mio) ne possa trarre dei vantaggi concreti. Però devo lavorare in modo ineccepibile perché la concentrazione del farmaco è estremamente  critica per il successo della terapia.
Quattro tentativi dopo, il collirio è pronto: non ho modo di provare il frutto del mio lavoro per cui mi raccomando alla mamma di avvertirmi in caso di qualunque problema o difficoltà.
Una volta al mese, quando consegno il nuovo prodotto, la interrogo con insistenza: ha notato dei miglioramenti? Quando lo usa il bimbo si lamenta? Ha notato nulla di strano, di particolare, di diverso? Gli occhi si arrossano, si irritano? Il bambino è infastidito dall'uso prolungato?
Il piccolo ci ascolta sempre aggrappato alla mamma: non ha avuto particolari problemi, non gli piace il collirio, ma non gli provoca particolare disagio, forse qualche risultato si comincia a vedere, aspettiamo di arrivare almeno a metà terapia.
Dopo quattro mesi gli chiedo se ha voglia di regalarmi un disegno. La mamma lo incoraggia:" lo fai un disegno a questa dottoressa che prepara la medicina per i tuoi occhi?" Cerca di scomparire fra le sue braccia: se potesse, ritornerebbe un tutt'uno con lei.
Mi si stringe il cuore.
Sono passati sei mesi: oggi è venuto con il papà.
Camminano vicini, sembrano allegri e sereni. "Cominciamo a vedere dei risultati"
"Adesso me lo fai un disegno?"
Si avvicina la papà, ma non si nasconde. Con un sorriso mi fa sì con la testa.